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Schermo, schermo delle mie trame...

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24 dic 2006

Dolce attesa

Galleria Umberto I

Il vento soffia nel braccio destro della storica Galleria Umberto I. Siamo una cinquantina in fila all’Ufficio delle Poste per pagare le bollette in scadenza. L’Ici, la luce e pure la spazzatura. La signora dietro di me rabbrividisce nel suo giubbottino, rimpiangendo guanti e berretto. “E non ho fatto neanche colazione”. Prego signora, vada al bar, le teniamo noi il posto. Lei ci va e torna dopo qualche minuto, rifocillata, con una manciata di cioccolatini. Li distribuisce uno a uno alle persone in fila.

E dalla carta argentata escono pensieri in libertà. Ognuno dice la sua. Su come siamo, a Napoli, su come ci comportiamo: per strada, in auto, sugli autobus, nei negozi. Si parla di cafonaggine in crescita esponenziale. Di scortesia esibita con aria di trionfo.

E qui si infiamma la signora dei cioccolatini. “A me sembra che la gente si comporti sempre di più come si trovasse dentro uno schermo”. Dice proprio così, nel gelo della Galleria che ospitò il celebre Salone Margherita: “Tutti vogliono apparire, come se ci fosse una telecamera a riprenderli”.

Colpo di scena. Viste da una certa prospettiva, le telecamere dovrebbero evocare sicurezza e incutere timore: “Attento, in questo momento una videocamera ti sta riprendendo”. Agli incroci, nei bus, nelle stazioni dovrebbero scoraggiare crimini e violenze. E magari indurre a comportamenti più civili, prima ancora di sorvegliare e punire.

Invece no, osserva la signora mentre la fila avanza di mezzo metro. La telecamera emana più potere di seduzione che di dissuasione. Ispira protagonismo. Ci si mette in posa, ci si vanta, ci si sfoggia. Se è necessario, prevaricando gli altri. Tutto per il piacere di assistere al proprio piccolo spettacolo.

E’ vero, dice un anziano signore, viviamo davanti ad una immaginaria telecamera, e nessuno che abbia più voglia di giocare a nascondino, come si faceva da bambini.

Ma siamo sicuri che sia poi tanto immaginaria, quella telecamera? Ma lo sapete che anche l’occhio di Klaus Davi ci sta guardando e monitorando?

Klaus Davi è quel dandy dalle guance rosee, gli occhialini tondi e i capelli impomatati che gira tra Porta a Porta e Quelli che il calcio. La Regione Campania gli ha affidato uno studio sull’immagine di Napoli nel mondo. E qualche giorno fa, presentando il primo rapporto dell’inchiesta, Davi ha dichiarato che bisogna puntare sui vini, la gastronomia, la cultura, il paesaggio.

Invece noi in fila siamo finiti a parlare di munnezza. L’impiegato del Comune di Napoli si volta e confessa pubblicamente che nessuno a Palazzo San Giacomo (sede dell’amministrazione municipale) fa la raccolta differenziata. “E io che sciacquo perfino le scatole di pelati, prima di buttarle nel contenitore della latta”, ribatte una giovane donna.

Ce l’ho fatta, sono allo sportello. E quasi quasi mi dispiace. Mi ci sono affezionata a scartare pensieri nella carta argentata. Per cui quest’anno gli auguri li porgo in sequenza a: quelli che sono ancora in fila, quelli che sono già filati via, quelli che le feste non se le filano proprio…

CI VEDIAMO CON IL NUOVO ANNO!

18 dic 2006

E invece mi sbagliavo...

Che abbaglio. Concentrata com’ero sull’immigrata d’eccezione Fiona May e sul suo alter ego Alyssa di Butta la luna, ho perso di vista tutto il resto. E tutti gli altri. Così mi è sparito sotto il naso il senegalese del Pantheon, con le sue borse taroccate. Sembrava in fuga dai vigili urbani nel quotidiano inseguimento tra guardie e ladri delle strade della Capitale, e invece stava correndo a Prati, verso viale Mazzini. Nelle braccia della Rai. In fuga

Si chiama Said, il senegalese, e racconta in un’intervista su Raidue che lui è stato un vero vu’ cumprà. A Roma, fino a qualche anno fa. Poi è entrato nel cast di Raffaella Carrà, ha fatto il boys a Carramba. E recentemente si è sistemato nella fiction Capri. Soccorso e accudito da Reginella. Dopo il successo della prima serie, le cose per lui si stanno mettendo proprio bene. Nella seconda serie della fiction, in preparazione, dovrebbe diventare addirittura maresciallo dei carabinieri. E intanto, a Roma, fa lo stilista. Proprio come Alyssa di Butta la luna! Non sto scherzando. Nell’intervista Said ha dichiarato: “Ciò dimostra che la fiction rappresenta davvero la realtà”.

A questo punto ho fatto una piccola indagine. E ho scoperto di essere rimasta indietro mille anni sia rispetto alla realtà sia rispetto alla fiction.

Tra gli immigrati, non c’è solo Said ad aver spiccato il gran salto in tv. C’è Sarita, che nella nuova serie del Medico in famiglia sarà una dottoressa angloindiana. In compagnia di suo nonno (per fiction) Kabir Bedi. Il primo albero genealogico che si ramifica per rizoma, dentro e fuori la fiction.

Ancora: nella seconda serie del Capitano ci sarà una extracomunitaria di lusso, molto ricca, proprietaria di un negozio a Milano.

E poi. Il ballerino albanese di Amici Kledi Kadiu, che ha aperto con successo una scuola di ballo a Roma, nella fiction Domani è un altro giorno interpreterà Yassin, un giordano che diventa proprietario di un’impresa edile.

Fanno carriera nelle professioni e nel commercio, gli immigrati della fiction. “L’integrazione multirazziale sta entrando nella nostra cultura e si sta lentamente consolidando”, conferma la capostruttura di RaiFiction Paola Masini. Mentre Fiona May finisce in retroguardia, con i suoi proclami: “Oggi avendo sposato un italiano, mi pongo come doppio esempio di integrazione razziale, nella fiction e nella vita”.

Attenta, Fiona. Anche la Madonna, in Nativity, ha tratti mediorientali. Altro che capelli biondi, altro che iconografia sacra. Mi toccherà pure sostituire la statuina del presepe. E Natale sta col fiato sul collo.

12 dic 2006

Il colore della vittoria

Fiona May. Pelle nera, nerissima. Un metro e ottanta di statura. E’ il suo momento. Anzi, il suo secondo momento. Ha lasciato gli ori mondiali del salto in lungo ed è balzata sul carro dorato dello spettacolo. Ovunque vada, è un successo. Sulle passerelle dell’alta moda. Sul set delle merendine kinder con la figlia Larissa. Sulla pedana di Ballando con le stelle. Vincente. Sempre.

Fiona May

Due settimane fa, Fiona ha spiccato un altro salto da protagonista nel Paese della Fiction (Butta la luna, otto puntate su RaiUno, ogni martedì). Niente fughe per la vittoria, niente storie di amarcord sportivi. Fiona è nera, il contrasto narrativo si gioca sul colore della pelle. E “nero”, nel Paese della Fiction, significa discriminazione, emarginazione (si sente ululare “Torna nella giungla brutta zulù!”), ma anche buone intenzioni, buoni sentimenti e voglia di inserimento sociale.

Così Fiona diventa Alyssa, immigrata in cerca di integrazione. Nigeriana con una figlia avuta da un tecnico italiano che ora non ne vuole più sapere. Solo che la bimba è uscita bianca, bianchissima, contro ogni buon senso genetico. E il conflitto cromatico dà il via alla fiaba.

All’inizio sono dolori: la piccolina viene tolta alla madre pensando che l’abbia rubata dal seno di una donna bianca. Ma Alyssa combatte, se la riprende, la fa crescere, lustra scale condominiali per vent’anni in modo da assicurarle finanche una laurea in psicologia. Fatica nera, e inutile sembrerebbe, visto che la figlia cede alla sindrome di Calimero: “Non è lei che è nera. E’ che io sono troppo bianca”.

Le identità si sconquassano: ma vuoi vedere che i veri sfigati hanno la carnagione chiara? Ed infatti, quanti personaggi perdenti in questa storia. Separazioni, bimbi malati, tradimenti, psicofarmaci. Vite in grigio, tanto grigio squallido, monotono, malinconico, triste. Colori da funerale.

Mentre Alyssa vince per contrasto cromatico. Drappeggiata di sciarpe e turbanti in straordinari accostamenti di arancione, verde, giallo, azzurro, rosso. I colori del suo paese, il suo segno di appartenenza. Colori che all’inizio erano simbolo di diversità ed ora la riscattano, le garantiscono il successo. Ovvero: un ampio appartamento nell’esclusivo quartiere Coppedé di Roma - dove la storia è ambientata - e un emporio etnico raffinatissimo, alla moda. Pieno di stoffe, vasi, quadri dell’artigianato africano e di commesse bianche a ordinare e pulire.

Al Pantheon

Siamo solo alla terza puntata e Alyssa già attraversa Roma con la falcata di un’imprenditrice del nord.

Chissà se di questo passo incontrerà mai la polifonia multietnica della Capitale. Le sfumature degli stati d’animo che stanno giusto dietro l’angolo. La miscela irrisolta di lingue e costumi del magnifico Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous (edizioni e/o). O il turbinoso via vai di personaggi e nazionalità che, insieme, hanno trovato il modo di farsi prendere sul serio, nell’altrettanto bel film-documentario L’Orchestra di piazza Vittorio (ora in tournée).

Finora Alyssa non è inciampata neppure nel fiume di senegalesi che percorre in lungo e in largo lo sconfinato emporio a cielo aperto del centro storico. Con le borse taroccate di Gucci e Prada al braccio e le coloratissime casacche di appartenenza addosso. Contrasto cromatico scritto sugli abiti e sugli accessori. Gli stessi colori di Alyssa: gialli, rossi, arancio, azzurro, verde, rosa.

Non i colori della vittoria, ma un’altra faccia dello scontro di civiltà: tra vero e falso. Autenticamente in nero.

1 dic 2006

Regali sotto l’albero

“Ha la faccia che sembra un battistrada, e quindi per il calendario Pirelli è perfetta”.

Questa settimana Le Iene di Italia1 pasteggiano con la carne di Sophia Loren, in posa per The Cal 2007. E’ un gioco da ragazzi, perché la diva ha 72 anni. E’ un gioco di parole, perché accosta perfidamente la superficie del volto femminile al copertone di un pneumatico. E’ un gioco gratuito, perché nei cinque scatti fotografici del calendario Pirelli è lei ad avere buon gioco. Con l’indice della mano destra ci invita al contatto, con il palmo della mano sinistra si tira indietro. Guidando sapientemente la danza del velo e non velo, sotto un chilometro di kajal.

Sophia Loren

Battistrada però lo è, eccome, donna Sophia. In testa non solo alle attrici giovani belle e sexy che hanno posato per il calendario, ma a tantissime donne di ogni età e taglia.

Sui quotidiani di questi giorni, la diva è faccia a faccia con Ana Carolina Reston. L’etereo e l’eterno: il corpo vulnerabile della modella brasiliana morta di anoressia a 21 anni e il prodigio del corpo maturo che resiste alla tirannia del tempo. Saputo che la Melandri ha proposto di abolire la taglia 38 sulle passerelle, la diva non ha esitazioni. Consiglia alle giovani: “Imitatemi”.

Sul set, prepara il caffè napoletano ai fotografi e confessa: “Era il mio sogno, il calendario. Solo che ai miei tempi non c’era”. Ai miei tempi: lo dicevano le nonne che avevano avuto i tedeschi in casa invece della televisione. Ora sanno che non è mai troppo tardi per la visibilità, le nonne Velone.

Veleggiano verso Sophia anche le quarantenni che il calendario se lo fanno in casa, complice il fotografo raccomandato dall’amica o dalla collega. Le ho viste qualche giorno fa sul backstage, in un programma di RaiDue. Dietro la reflex, il fotografo le coccola, le eccita, le ammonisce: “Attenta, in questa posa passi facilmente dall’arte alla volgarità”. Loro - impiegate, madri di famiglia, imprenditrici – fanno man bassa degli sguardi incendiari della pubblicità, rubano le posture, cincischiano con la lingerie taroccata. Ma perché lo fanno? Non per soldi, né come richiamo pubblicitario: non sono sirenette televisive. E allora perché? Ognuna ha il suo motivo. Per dimostrare di essere sexy. Per archiviare un ritratto “decente” da tirare fuori dal cassetto tra vent’anni. Per tenersi compagnia con la propria immagine. Come alternativa alla psicoterapia. Come regalo di Natale al marito.

Anche la Loren ha rivelato che metterà il suo calendario Pirelli sotto l’albero, come regalo per marito e figli. Si può essere oggetto di desiderio e insieme icona di moglie e madre esemplare: “Forse è questo il mio lato sexy”, dice.

Che battistrada, donna Sophia.

21 nov 2006

A schermi pari

Picchiano e filmano armati di telefonini.

Filmeranno coloro che picchiano, armandosi di telecamere a circuito chiuso.

Immagini filmate contro immagini filmate. Così alcuni presidi vogliono rispondere alla proliferazione di episodi di bullismo e teppismo: installando nelle scuole sistemi di video-sorveglianza. Dando battaglia ai fotogrammi violenti con altri fotogrammi destinati a smascherare e punire. Un altro paradosso dei media.

Telecamere nelle classi, nei corridoi, nei bagni. Pare già di vederle, sopra il crocifisso e l’effigie del Capo di Stato. Sarà una guerra virtuale ambientata nelle trincee scolastiche. Sarà la guerra dei display: schermi contro schermi, ad armi pari. Anche qui, a scuola, tutti spettatori e partecipanti. Tutti catturati nel gioco di specchi dei media: a guardare e a farsi guardare. Tutti in un frame che rimanda ad altri frame.

Viviamo in un’implosione di immagini riflesse. Che si rincorrono. Si tengono per mano. Intrecciano tra loro relazioni pericolose. Saltano in aria finanche i modelli visivi della seduzione e del maternage femminili. La militare americana che si fa fotografare mentre irride il prigioniero iracheno nel carcere di Abu Ghraib sembrava lontana dal nostro universo, isolata sull’orizzonte efferato della guerra. E invece la postura trionfale di quella donna ora combacia – in una perversa affinità elettiva – con quella della ragazza che mette in rete il filmato del pestaggio del compagno autistico. Una è lo specchio dell’altra.

I media hanno prodotto un nuovo inconscio ottico, una nuova sensibilità ai riflessi dell’immagine, scrive l’antropologo Franco La Cecla in un saggio appena uscito (Surrogati di presenza, Bruno Mondadori). “Viviamo oggi nella pienezza realizzata di uno ‘statuto degli specchi’, nella pienezza di forme che hanno la propria sostanza in qualcos’altro, nel rimando a qualcos’altro”.

Bullismo

Le immagini rimpicciolite, mosse, sporche dei telefonini di bulli e pupe rimandano e sostituiscono una presenza reale. I ragazzi incriminati si difendono: si trattava solo di una messa in scena, abbiamo finto di dare calci, li abbiamo solo mimati. Rivedono il filmato e non si riconoscono. Vogliono solo dimenticare. Invece le immagini stanno lì. Hanno acquistato un’anima. Non si possono dimenticare.

Oltre alla giusta punizione, al riconoscimento delle responsabilità e alla discussione collettiva sulla violenza, bisognerebbe cominciare con quei ragazzi – con tutti i ragazzi - un viaggio di esplorazione nell’universo delle immagini.

Bullismo1

Ribattere alla violenza con una raffica di domande (e il libro di La Cecla ci può aiutare molto): a quale deposito interiore di immagini avete attinto per produrre le vostre immagini? Da dove viene il desiderio di vedere e di essere visti attraverso le immagini? Quali sogni, quali immaginazioni stanno dietro questo modo di comunicare - e di vivere - fatto di immagini riflesse? Siete proprio sicuri di poterle rinnegare, quelle immagini?

Ma poi siamo tutti a doverci interrogare, con o senza video-sorveglianza, su questa tensione del mondo contemporaneo a farsi immagine, e delle immagini a diventare l’anima della realtà. Fino alla domanda delle cento pistole: come possiamo “mediare” con le immagini, traendone forza e ricchezza, piuttosto che disagio, rabbia o indifferenza?

8 nov 2006

Rivedi Capri, e poi e poi e poi…

“La cartolina dal terrazzo dell’hotel che mi ospita  - Capri, la penisola sorrentina, Castel dell’Ovo - toglie il fiato, ma in controcampo sono i morti, le sirene della polizia, la miseria, i motorini che sfrecciano”. Leggo su “La Repubblica” l’intervista di Silvia Fiumarola a Sergio Castellitto, che in questi giorni è a Napoli sul set della fiction televisiva Il professore. Una storia girata al rione Sanità e liberamente ispirata a Marco Rossi Doria, il “maestro di strada” dei Quartieri Spagnoli. La vedremo in primavera su Canale5.

Leggo, si fa per dire: ho un occhio sul giornale e un orecchio a Ballarò. Anche lì si parla di Napoli, di criminalità da strada. Che coincidenza. E a proposito di coincidenze, mi viene in mente che…

Coincidenza n°1: qualche giorno fa, affacciato ad una finestra in campo/controcampo su Capri, c’era lo scrittore-attore Peppe Lanzetta (vedi diario 3 novembre).

Coincidenza n°2: tra gli interpreti de Il professore c’è anche e ancora lui, Peppe Lanzetta.

Coincidenza n°3: a Napoli si gira una fiction sull’emergenza in piena emergenza, con sette ragazzini presi dalla strada e il protagonista sotto scorta.

Coincidenza n°4: “per lo stile asciutto con cui Zaccaro gira, con la macchina in spalla, fotografa la realtà” (dall’intervista di Silvia Fiumarola).

Coincidenza n°5: sulla pagina a fianco dell’intervista, c’è la dichiarazione di Paolo Sorrentino, regista napoletano dell’Amico di famiglia: “Lascerò la mia città che vive in eterna emergenza”.

Ho scritto coincidenza. Forse non è esatto. Una coincidenza è strana, o è fortunata. Si perde una coincidenza. A Napoli, invece, si va in cortocircuito.

3 nov 2006

Vedi Capri e poi …

“Da casa mia non si vede Capri”, dice l’attore-scrittore Peppe Lanzetta, ospite di Giuliano Ferrara a Otto e mezzo. Si parla dell’emergenza criminale a Napoli. Dei sette morti ammazzati in cinque giorni. Di esercito sì o no. Di Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, sotto scorta.

E Lanzetta, per tutta risposta: “Da casa mia non si vede Capri”. Dalla sua finestra vede la città, e la cappa opprimente della vita quotidiana. Non la bella giornata. 

Capri

Da milioni di case italiane, invece, in queste settimane Capri si vede, eccome. Su Raiuno, la serie tv in dodici puntate  - nata da un’idea di Carlo Rossella (direttore del Tg5 nonché titolare della posta del cuore del settimanale “Chi?”) e diretta da Enrico e Francesca Oldoini – illumina tra i faraglioni e la grotta azzurra una graziosa ragazza di Brembate, Vittoria Mari, laureata in psicologia e prossima al matrimonio. Non è una turista per caso, Vittoria, ma la fresca ereditiera di una favolosa villa sull’Isola, che una ricca e sconosciuta parente le ha lasciato in testamento.

Già, l’eredità. Quante sono le dimore avite nell’immaginario cinematografico di Capri? E quante le clonazioni narrative di pretendenti ed eredi? Sergio Lambiase (in un recente articolo uscito il 18 ottobre sul Corriere del Mezzogiorno/Corriere della Sera) ne ha scovate almeno tre: la maestrina inglese di The Golden Madonna (del regista Ladislao Vajda, 1949) che eredita una villa dove è nascosto un prezioso quadro, la “Madonnina d’oro” del titolo; la bella e giovane vedova del barone Vito Fonseca in Stangata napoletana, (di Vittorio Caprioli, 1983) che scopre di avere ereditato una villa da sogno; il giovane e tormentato scrittore di Capri, you Love? (di Alexander Oppersdorff, 2005) che vorrebbe vendere la splendida villa ereditata presso la grotta Azzurra.

A pensarci bene, anche Un posto al sole è cominciato con l’eredità di una villa sulla collina di Posillipo: era il 1996 e Anna Boschi si affacciava felice dalla fiabesca terrazza di palazzo Palladini, da dove Capri appare con  l’ineffabile profilo di una donna dormiente.

Non sarà così “originale”, Capri, ma è ricchezza, è investimento di immagine, dicono i responsabili di Film Commission Regione Campania, che ha finanziato la serie tv: “Costituira' per la Campania un grande traino turistico in una stagione strategica per la promozione”.

Mai state così vicine e così lontane, Capri e Napoli. La scia schiumosa di un vaporetto segna la distanza tra la fiction e la realtà. In dissolvenza incrociata, il “non vedere Capri” di Peppe Lanzetta adesso si trasforma in “il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese. Sono passati cinquant’anni e quell’immagine sta ancora lì, quando a Napoli ci affacciamo alla finestra.

25 ott 2006

Chi non muore si rivede

Quante volte si può morire in una fiction? La meravigliosa improbabilità della televita ha giocato un altro tiro mancino. Questa volta tocca all’ispettore Mauro Belli di Distretto di polizia. Ferito a morte dal killer Patriarca, Belli non ce l’ha fatta. I chirurghi hanno scosso la testa uscendo dalla porta a vento della sala operatoria dopo aver cercato inutilmente di salvarlo. Poi i funerali, con i colleghi del Decimo Tuscolano sciolti in lacrime. Per l’ultimo addio è tornata anche la commissaria Giulia Corsi, che dal Distretto se ne era andata una serie fa.

Migliaia di italiani indignati per la sua morte. In poche ore, 1250 messaggi al forum del sito (che accoglie i navigatori a colpi di pistola) e le centraline di Mediaset intasate dalle telefonate. Altrettante migliaia di italiani indignati per questa indignazione. “Il sonno della ragione, genera mostri e non c’è niente di più vero del sonno che ha generato in tutti noi quella scatola di plastica”, scrive un telespettatore giurando che lui e la sua famiglia da questo momento spengono la televisione per sempre.

Mauro Belli/Ricky Memphis

A vedere cotanto sdegno intorno a lui, il fantasma di Mauro Belli si è messo a sorridere dietro una lapide del Verano. Proprio così: lo abbiamo visto sorridere sullo schermo come se fosse ancora in carne ed ossa, con gli eterni jeans sbrindellati e il giubbotto di pelle, e lo ha visto anche il suo amico commissario Roberto Ardenzi. Un sorriso ammiccante, un po’ da santo un po’ da figlio di buona donna. Come a dire: tanto rumore per nulla.

Perché, come nel paese di Macondo, anche nel paese della Fiction i morti non lo sono mai del tutto e continuano a peregrinare nel mondo dei vivi. Lo sa bene il produttore di Distretto Piero Valsecchi (ancora lui, vedi questo diario: 2 maggio e 24 maggio 2006) che sul settimanale DiPiù ha riacceso il mistero: “Chi l’ha detto che Belli è morto? Non lo sappiamo. Personalmente, penso sia ancora vivo”. Ma come la mettiamo col funerale? lo incalza il giornalista.  E Valsecchi: “Lei lo ha visto il corpo di Belli? Lo ha visto morire? La verità è che neanche Ricky Memphis sa se il suo personaggio è morto: glielo devo ancora dire”.

Colpo di scena. Mauro Belli è ancora prigioniero nella scatola illusionistica del grande Houdini. Il cadavere non si è visto. Morto per fiction, anche lui come tanti prima di lui. Non resta che pregare: “L’eterno ritorno dona loro, Valsecchi…” .

12 ott 2006

Per Alba, ovunque tu sia…

Calamity Jane

“Porto i pantaloni così posso fuggire mentre queste femmine in sottana gridano aiuto. A volte penso che mi sposerò ancora e poi il pensiero di essere legata alla coda della camicia di un uomo mi fa stare male”. Martha Jane Cannary, detta Calamity Jane. Guida le diligenze, vince al poker e fa la cameriera nei saloon, un giorno mangia il pollo e il giorno dopo le penne. Parla il gergo dei cow boys e sforna lezioni di economia domestica. Ha una figlia, Janey, avuta dal suo grande amore, il leggendario sceriffo Bill Hickok che l’ha lasciata quando la piccola è nata. Janey da allora è affidata a genitori adottivi. Calamity le scrive tenere lettere che non spedirà mai, un diario lungo venticinque anni (Lettere alla figlia. 1877-1902, Editori Riuniti, 1994). Scrive seduta alla luce del fuoco dell’accampamento, accanto all’amato cavallo Satan, nella valle degli indiani Sioux: “Loro sono convinti che io sia pazza. Sono l’unico essere umano di cui hanno paura”.

Alba Parietti

Nel 1893 Bill Cody chiede a Calamity di esibirsi nel suo Buffalo Bill’s Wild West Show. Ed eccola che cavalca senza sella, in piedi, spara due volte al vecchio cappello Stetson dopo averlo lanciato in aria prima che le ricada sulla testa. “Ora diranno per certo nei loro cuori ipocriti che sono destinata all’inferno”. Calamity fa il verso a se stessa, le folle gridano e applaudono. Ma lei è stanca: “sto discendendo la china”, scrive a Janey. Ha 46 anni e tanta malinconia per il vecchio West, ridotto a spettacolo circense per famiglie. Il mondo è cambiato: verità e menzogne si accumulano, leggende si sovrappongono ad altre leggende. Le ultime parole sono ancora per la figlia, che mai sapremo se sia stata una creatura reale o un’immagine speculare di Calamity: “C’è una cosa che ti dovrei confessare ma proprio non posso. Me la porterò nella tomba. Perdonami e tieni conto che ero sola”.

8 ott 2006

arRAPati

“Per me in particolare / sarebbe anche sconfessare…”. Ancora una volta ci riconosciamo come popolo di poeti involontari.

Prodi e Rutelli

Il rap dell’Unione a Montecitorio conferma quanto già sapevamo: non occorre saper necessariamente cantare, o saper suonare uno strumento musicale, per trasformarci in rapper. Almeno per un giorno. Basta un testo capace di colpire l’immaginazione. Basta una base registrata. Tutto fa brodo: un gioco di parole, un’epigrafe, uno slogan, una poesia, una ricetta di cucina o la nebbia agl’irti colli.

Non c’è metrica che tenga. Terzine dantesche, endecasillabi petrarcheschi, ma anche tangentopoli e faccetta nera. Tutto il mondo è stato, e può, essere avvolto nella pellicola trasparente del rap. E’ dal 1993 che nelle discoteche si balla il rap letterario, ha cominciato l’acclamato Fiorello sui versi di Leopardi e Carducci. Senza problemi di diritti, scaduti dopo i settant’anni dalla morte dell’autore.

Perché qui sta il problema, piuttosto che nel vilipendio delle istituzioni: la protezione dei diritti d’autore. Proposta: che gli interpreti dell’Unione depositino il loro testo alla SIAE e che, ogni qualvolta il rap venga diffuso dalle televisioni, la somma incamerata dai diritti sia devoluta alle casse dello Stato.

Tutti, democraticamente, ne trarremmo vantaggio, nel nome di quell’altro ormai storico tormentone: una risata vi seppellirà.