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Schermo, schermo delle mie trame...

 

11 Dic 2007

“La logica della fiction ha della ragioni che la ragione storica non conosce”

Il capo dei capi

Con buona pace di Pascal, a parlare di serial tv si cade dalla padella di Schirò -Totò Riina alla brace di Virgilio e Shakespeare. Che lo dicevano chiaro e tondo: senza invenzione, non c’è dramma e non c’è verità. Lo spiega Maurizio Stefanini in un paginone de “Il Foglio” (1 dicembre). Ripercorro sui ritagli di giornale i fiumi di inchiostro spesi per Il capo dei capi, la serie in sei puntate appena conclusa su Canale 5. Più che la trama delle puntate, possono i sondaggi, le denunce, le richieste di censura. Derive narrative al limite dell’incredibile. Anelli di una catena dialogica che ripete e continua una storia già raccontata.

A cominciare dai veri Totò Riina e Bernardo Provenzano, incollati ad un monitor nelle rispettive carceri di Milano e di Novara. Non hanno perso, dicono i loro avvocati, una battuta del film della loro vita, se non per collegarsi in videoconferenza con l’interrogatorio del pentito Gaetano Grado che li accusa davanti alla Corte d’Assise di Palermo. Ma quale tra le due ricostruzioni -  televisiva e processuale -  sia stata per loro più avvincente, gli avvocati non dicono.

E’ però indicativo l’arresto di un altro mafioso palermitano davanti alla tv mentre sta guardando Il capo dei Capi. Situazione che, a sua volta, rimette in causa le parole dello scrittore e magistrato Giancarlo De Cataldo: “La fiction arriva là dove non può la legge”. In questo caso la legge arriva là dove la porta la fiction.

E ancora. Su fronti opposti sono scese in campo le mogli, a ribadire che le sceneggiature vanno sottoposte ai familiari: Ninetta Bagarella con azione legale contro la produzione e Mediaset accusati di aver infangato narrativamente la sua verità; la signora Giuliano polemizzando contro la riduzione a stereotipo della figura del marito Boris.

E poi ci sono i numeri. Per rispondere a ministri, storici, giudici, pedagogisti intervenuti pubblicamente contro il modello di eroe negativo che Il capo dei capi proporrebbe ai giovani affascinandoli pericolosamente, ha marciato a Corleone Daniele Liotti, interprete del poliziotto Schirò. Che nella tana del lupo ha contato quanti giovani si riconoscono in lui e quanti in Riina. Una sorta di controcanto al sondaggio che il Corriere della Sera ha proposto ad un campione di 13.000 italiani: è giusto bloccare la messa in onda della fiction sui boss della mafia? Il 72,80 per cento ha detto che no, non è giusto.

Quante storie dischiude una fiction. I giornali parlano addirittura di “banalità del male”, prendendo a prestito il titolo del libro di Hannah Arendt sul processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Per risalire la corrente delle riflessioni sulla natura umana, forse. Però dai miei ritagli sbuca una più prosaica intervista all’attore siciliano Claudio Gioè, che si è preparato a fare Riina studiando il boss nei video processuali e che dichiara: “Sono rimasto affascinato dalla sua arte di fingere, dalla sua bravura recitativa. Del resto i pentiti lo descrivevano come un tragediatore”.

Così ritorno a Pascal.

1 Dic 2007

Hotel Supramonte

Barbagia

Il mondo sta riaggiustando le sue mitologie. E il turismo riaggiusta i suoi itinerari. Sfrutta i simboli dei regimi caduti, trasforma in paesaggi suggestivi i luoghi già testimoni di stragi, omicidi, orrori del passato. Siti in cui scorazzare con un pacchetto weekend tutto compreso.

A Chicago trionfa Al Capone e il muro dove il giorno di san Valentino del 1929 furono massacrati i gangster della banda rivale. Sulle montagne bavaresi si brinda al Nido delle Aquile, che fu lo chalet del Fürer. E a Monaco spopola tra i visitatori l’Hitler tour. Filologicamente ineccepibile, con menu e arredamento rigorosamente a tema, il ristorante del KGB a Mosca, vicino alla Lubjanka. L’albergo Ostel di Berlino è preso d’assalto dai turisti perché ripropone l’atmosfera della Ddr. A Hanford, nello Stato di Washington un sentiero collega duemila chilometri di turismo nucleare: bevendo birra, si osserva la bomba atomica sganciata su Hiroshima. Anche dall’altro capo del mondo, ad Hanoi, bevendo birra si osservano i residuati bellici della guerra con gli Stati Uniti.

Rimozione del passato? Macabra curiosità? Lezioni di una storia che scorre veloce alle nostre spalle? Business intensivo e basta?

Anche a noi italiani tocca fare i conti con queste domande. In Sicilia, ad esempio, i tour mafiosi con bar “Il Padrino” e amaro alle erbe dedicato al boss si incrociano con le gite sulle terre confiscate ai clan dove si produce e si vende il vino delle cooperativa “Centopassi”.

L’ultima novità è però arrivata in questi giorni dalla Sardegna, dove presto si potranno intraprendere itinerari turistici in compagnia di Graziano Mesina. Sì proprio l’ex sequestratore di persona graziato nel 2004 dal presidente Ciampi dopo 40 anni di carcere. Mesina inaugura in questi giorni a Padova la sua agenzia turistica “Undici Mori” insieme ad un ex calciatore e un ex agente di polizia penitenziaria. L’ex bandito gentiluomo guiderà i turisti a Orgosolo e dintorni, lungo i sentieri più nascosti, gli scorci più incredibili della sua Sardegna. Vuol dare lavoro ai giovani del suo paese, ragazzi allo sbando – dice – che si dedicano alla pastorizia senza riuscire a tirar su un centesimo. E vai con magliette, berretti e gadget marchiati con il suo nome e la sua faccia spavalda. Graziano ha un orizzonte ampio e ha pensato anche alle prelibatezza gastronomiche della sua Sardegna, aprendo a Padova un negozio di prodotti tipici. Ricordando ai clienti che “anche ai rapiti, quando potevo, offrivo cibi di qualità”.

21 Nov 2007

Ciak turistici

Ciak

Un’agenzia di Milano lancia via internet “Moweekend”, invito a partecipare a un vero film per persone vere filmato da una vera troupe e un vero regista. “Rendersi conto di com’è la vita degli artisti, quali sono le tecniche di ripresa, l’atmosfera che si viene a creare, le tensioni, le vibrazioni di un set cinematografico e tutto quello che circonda il mondo dello spettacolo. Una troupe di professionisti ti aspetta per trasformarti in un attore - esaltando le tue potenzialità artistiche, regalandoti un’esperienza irripetibile - e farti tornare a casa con il tuo film da custodire fra i ricordi più cari”.

Il programma prevede un “tutto compreso” di tre giorni, dal venerdì alla domenica, con vitto, alloggio e diritto alla partecipazione alle riprese. Sveglia alle 6,30 per colazione, trucco e parrucco. Riprese dalle 8,00 alle 22,00. Il montaggio delle fiction inizierà il lunedì successivo e, tempo una settimana, il filmato in dvd sarà spedito a domicilio per posta prioritaria. Costo non specificato, bisogna telefonare ad un cellulare. Certa invece la data e il luogo: Moweekend prenderà il via nel marzo 2008 all’albergo Airone di Zafferana Etnea, “splendida location ai piedi dell’Etna già scelta da produzioni cinematografiche italiane ed estere e recentemente utilizzata da Franco Zeffirelli per Storia di una capinera”.

I quotidiani di questi giorni commentano ampiamente l’escursionismo sui luoghi dell’orrore, l’esistere ed esibirsi dei malati di voyerismo, il bullismo che si trasforma in fiction nei filmati al telefonino diffusi su Internet. Moweekend non è per loro. E’ piuttosto una soluzione incruenta per quegli spettatori che si sono scocciati di essere solo spettatori e che hanno già cavalcato tutti i set delle fiction, dalla Punta Secca di Montalbano al castello di Aglié di Elisa di Rivombrosa. Un’altra deriva del turismo post-televisivo.

 

10 Nov 2007

Bamboccioni e bamboline

Bambolina

Ha quattordici anni, questa bambolina con il seno che esplode sotto i bottoni del vestito beige. Ha appena pubblicato il suo primo romanzo, centinaia e centinaia di pagine che raccontano l’amore di una quattordicenne (come lei) per un sessantenne. Amore ricambiatissimo, ci mancherebbe. “Secondo me la vita è come un cerchio”, dice. E i 60 anni si ricongiungono amorevolmente e sessualmente ai 14. E poi non esistono più i gentiluomini: così le quattordicenni li vanno a cercare tra i sessantenni. Insomma, una volta gli scrittori scrivevano Lolita. Adesso sono le Lolite a scrivere, poi vanno su Internet, trovano da sé l’editore e addirittura il responsabile della collana a cui affidare il loro romanzo. Che in tre giorni dà l’ok alla stampa. Nel frattempo lasciano la scuola, perché le fa star male, perché detestano i banchi, i compagni, perché si annoiano. I genitori consenzienti arruolano gli insegnanti a domicilio e offrono il  soppalco della loro boutique glamour alla piccina, che può così dedicarsi alla scrittura ed esclamare trionfante, come una novella Proust, “sono arrivata a pagina 350!”

Ospite della Bignardi, c’è anche Paola Mastrocola, insegnante e autrice di successo, in panciotto e camicia maschile, chabot al collo, scarpe basse. Intellettuale molto torinese. Anche lei è qui per presentare il suo romanzo appena uscito. Un altro pianeta narrativo, biografia e dati anagrafici distanti anni luce, ma “è un genio” dice della quattordicenne, pur confessando che il libro non l’ha ancora letto. E confida in diretta che pure sua figlia non l’avrebbe mandata a scuola, se solo ne avesse avuto il coraggio.

Mi appiglio alla parola coraggio. Non c’è nessuno qui intorno che ha il coraggio di avanzare almeno il dubbio che questa ragazzina abbia un problema di socializzazione, nessuno che riconosca nel ritratto dei genitori il frutto di un’educazione ricca e viziata? Perché? Paura di non sembrare adeguati ai tempi?

Altro che bamboccioni. Una figlia così la manderei a correggere bozze per cinque anni. Nessuna autorizzazione alla pubblicazione, almeno fino alla maggiore età. Altro che “scrittrice”, come recita il sottopancia delle Invasioni.

06 Nov 2007

Occhio al mostro

“Ci sono tre verità: la verità dei fatti, quella giudiziaria e quella mediatica”. Si può diventare dei mostri e poi trasformarsi in santi. La terza verità. Le voci che uccidono, di Stefano Reali, racconta la storia di un errore giudiziario. Errore: ma fino a un certo punto. Il brillante neurochirurgo pediatrico Enzo De Caro è accusato dall’ambiziosa reporter di un giornale di provincia di essere un serial killer. Viene sbattuto in galera, sottoposto al brutale codice deontologico dei detenuti, ma poi scagionato grazie al ritrovamento di un impermeabile. Lo stesso impermeabile che permetterà alla reporter di dimostrare che il neurochirurgo è veramente l’assassino.

La terza verità

Sì, confessa alla fine De Caro, sono un assassino: ma fino a un certo punto. Ho ucciso malati terminali per aiutare i miei piccoli pazienti destinati a una fine prematura. Si è assassini se si uccide l’insalvabile per salvare altre vite umane? Il neurochirurgo torna in galera, ma non prima di aver operato un bambino in extremis e di aver passato il testimone al suo giovane assistente. Infermiere e malatini lo guardano desolati mentre si allontana in manette; la reporter medita di lasciare il giornalismo e arruolarsi nei carabinieri. Chissà se lo farà. Intanto, sui titoli di coda infila una domanda diretta: “Io cercherò di tenere gli occhi bene aperti. E voi?” Noi, cara reporter, confidiamo nei vecchi, sani princìpi di Blow-up. Basta una digitale per scovare verità sorprendenti.

30 0tt 2007

I maestri del colore

Alessio Boni

Ah, se la fiction fosse un quadro! Eccolo, il quadro. Un fotogramma di Guerra e Pace. Uno solo tra mille, tra battaglie, balli, eserciti a cavallo, scenari innevati. Tra tante domande, perché leggere i classici, perché guardarli in tv, perché rileggerli dopo averli guardati, tra polemiche sulla cultura visuale (“C’è più Tolstoj in ER o in NYPD che non nel Guerra e pace televisivo”, scrive Antonio Scurati su La Stampa), percentuali d’ascolto, interviste a Ettore Bernabei sulla missione pedagogica della tv, e nuova edizione del romanzo in libreria con la fascetta rossa in copertina: “Il capolavoro di Tolstoj, la fiction di Raiuno”.

Che almeno lui, il principe Andrei Bolkonskij, uomo d’armi e d’onore, riposi in pace. Le sue ultime parole: “Bisogna vivere. Bisogna amare. Bisogna credere”. Mi piace ricordarlo così, nell’ultimo fotogramma sul letto di morte. Splendido incrocio iconografico tra Che Guevara, il Cristo morto di Masaccio e il Caravaggio che presto vedremo in tv interpretato proprio da lui. Lui, naturalmente, è Alessio Boni.

23 0tt 2007

Quel che le donne si dicono

Un manifesto di cento metri per centoquaranta con il suo volto in bianco e nero su fondo blu. E una scritta: “La politica non è solo casta”. Daniela Santanché lancia i circoli D-donna (D come Daniela) tre metri sopra il cielo (di Milano, piazza Cinque Giornate), per niente preoccupata di entrare in rotta di collisione con i circoli della Libertà di Michela Vittoria Brambilla.

Lucrezia Lante della Rovere

Mentre a destra le donne si disputano il potere, sulla rive gauche si sparano bordate dal sapore barbarico. Marina Ripa di Meana chiama al duello Daria Bignardi, rea di aver teso domande trabocchetto a sua figlia Lucrezia Lante della Rovere, inducendola a dipingere la madre come una matta quasi sanguinaria. “La sfido a venire a Buona Domenica” ha detto Marina ospite da Paola Perego su Canale5: “Scelga lei le armi. Pesci in faccia, frustate o calci in culo”.

Inarrestabili, le signore bardate di reggicalze e tacchi a spillo usano soavi colpi bassi,  brillanti prepotenze, astuzie al vetriolo. Ma guai a spolverare gloriose battaglie di dame sull’Olimpo e sullo schermo, dietro le quinte o sul patibolo. Elisabetta d’Inghilterra contro Maria Stuarda, Bette Davis contro Anne Baxter, Tebaldi contro Callas, Loren contro Lollo. Eva contro Eva oggi suona maschilista, ti ritrovi nel fuoco incrociato e finisce che ti becchi pure una decolletè in testa. Mentre gli uomini stanno a guardare...

16 0tt 2007

Il posto in gioco

Vittoria Puccini

E’ un déjà-vu, ho pensato leggendo in programmazione su Raiuno La Baronessa di Carini. Il titolo però l’hanno mozzato. Trent’anni fa (1975, per la precisione) l’originale televisivo suonava: L’amaro caso della Baronessa di Carini. Scritto da Lucio Mandarà, regia di Daniele D’Anza, con gli occhi chiarissimi (ancora in bianco e nero) di Ugo Pagliai, il ghigno a denti stretti di Paolo Stoppa e il vocione di Gigi Proietti che sui titoli di coda cantava una funerea ballata popolare siciliana. Ricordi intrecciati al Segno del comando (1971), sempre Ugo Pagliai e il “Din-don amore” di Nico dei Gabbiani. Erano gli anni delle manie parapsicologiche, delle vittorie milionarie di Massimo Inardi al Rischiatutto di Mike Bongiorno. Il mistery si tagliava con il coltello.

Leggo oggi sui giornali che il produttore della Baronessa di Carini è il figlio del produttore dell’Amaro caso della Baronessa di Carini. Dunque ha ereditato di nome e di fatto (compresi i diritti d’autore?) lo sceneggiato del padre. Poi vedo sullo schermo che anche la Baronessa di Carini non è una faccia nuova. Caspita, è Elisa di Rivombrosa! Ma Elisa non era morta l’anno scorso? Sì, però prima di morire la contessa ha fatto giurare a sceneggiatori e regista che si sarebbero presi cura della sua povera figlioletta. Nepotismo obblige, hanno promesso loro. Tra quindici giorni su Canale 5 appuntamento con la prima puntata della terza serie della saga. Titolo fulminante: La figlia di Elisa. Ritorno a Rivombrosa.

7 0tt 2007

Telepreghiere

Telecomando-Rosario

Se la televisione è lo specchio di chi la guarda (lo dicono i critici),  il televisore è l’alter ego di chi lo acquista. Parlo dell’apparecchio tv e penso al 17 pollici integrato nella cappa da cucina Multimedia della Siemens;  al 15 pollici incastonato nel forno della Whirlpool; al  tele-frigorifero che ho visto in vendita a 2500 euro nell’ipermercato di Caserta. Provo soltanto a immaginare il 42 pollici a cristalli liquidi nella Jacuzzi biposto; il 40 pollici Diamonds tempestato di diamanti per un totale di 20 carati; il 71 pollici tutto d’oro prodotto dall’italiana Keymat in mille esemplari numerati.

Se la tv è lo specchio di chi la guarda e il tv l’alter ego di chi lo acquista, il telecomando è l’anima di chi lo compulsa. Esempio: il coloratissimo rosario interattivo in vendita su www.plusminus.ru che il designer russo Dima Komissarov immagina tra le mani dei più devoti e ortodossi telespettatori. A ogni pallina corrisponde un canale televisivo diverso: una leggera pressione e si accende la lucetta, parte il motivetto musicale, si cambia programma. RaiUno, Canale5, La7 sgranati come AveMaria, Pater Noster, Gloria... all’infinito.

Rosario digitale

Non c’è più religione? Aspettiamo a dirlo. Sul labile confine tra sacro e profano arriva in questi giorni un altro rosario: il rosario digitale “Prex”, pubblicizzato dal quotidiano “Avvenire”. Un oggettino nato all’ombra del santuario di Loreto e acquistabile online su www.holyart.it, con libretto di istruzioni e garanzia. Guarda un po’ che combinazione: i sette pulsantini evocano un telecomando. Basta selezionare il giorno della settimana e una voce femminile, accompagnata da un coro, accende la preghiera. Presto sarà in commercio il modello con cuffiette, discreto e silenzioso, per una spiritualità al passo con i tempi.

 

26 set 2007

La frecciata nera

La freccia nera

“Forza! La vita vi farà trovare di fronte a ben altre prove da superare!” dice Loretta alle aspiranti Miss Italia. E dicendolo precipita nel contrappasso dei nostri tempi: l’ansia da visibilità. Chiede alle ragazzine ciò che non riesce neanche a lei, a 56 anni: guardare oltre la telecamera, scrutare l’orizzonte. Si incaglia nelle stesse emozioni che chiede loro di contenere. Relegata fuori scena per venti minuti dal perfido Mike, esplode in diretta. “Non sono la tua valletta muta, non sono Edy Campagnoli”. Reclama il proprio spazio. Come una miss.

Certo, come darle torto in questa tv senza gentiluomini. Però, col senno di poi, Loretta aveva ben altro asso nella manica. Un colpo di scena alla Houdini. Lasciar andare alla deriva lo spottino di Mike e Fiorello e dileguarsi sul serio. Definitivamente. Un vero show alla faccia del contratto, degli sponsor e pure del marito. Chi l’ha vista? Dove sta Zazà? Diventare autrice e regista di se stessa, dirigere lo spettacolo della propria assenza. E smentire così anche la ex Miss Italia, che ha mandato a dire: “Quando la Goggi è uscita ho sperato che non tornasse, perché quello era finalmente il mio momento”.

Esercitando l’arte della sparizione, Loretta ci avrebbe dato una vera frecciata di “buona vita”, invece di quell’augurio reiterato sul palco quando era ormai troppo tardi. O forse no. Forse, come dice la vecchia tv che Loretta conosce bene, non è mai troppo tardi.

20 set 2007

Io non ho paura

Roberto Saviano

Scatena passioni. Piccole grandi medie. Ognuno si lascia trascinare secondo la propria taglia e sesso. Il genere femminile è travolto, fatalmente. Di fronte a Saviano diventiamo figlie amanti madri, a seconda della storia anagrafica e sentimentale che ci portiamo dietro. Lui invece ci vorrebbe tutte sorelle. E già, stai fresco. Che pretendi con quegli occhi, con quelle labbra. A che cosa ci chiedi di rinunciare con quella foto sulla quarta di Gomorra?

E adesso pure in televisione. Mica fluttuante nel viavai del palinsesto. No, in copertina: in testa al Tg1 delle 20. Massima esposizione Rai. Primo piano di nome e di faccia. Sfondo azzurro e marca televisiva cubitale.

Ma il viso di Saviano non ha niente a che vedere con la usuale fisionomica dei volti televisivi. Non è familiare, non è domestico. La sua bellezza è una commistione di selvatico, di sfuggente, di commovente. E la sua parola persuade. Una visione del mondo, stagliata davanti al mappamondo del Tg1,  dove bello e buono, bello e giusto, etica ed estetica riprovano a dialogare.

Non è facile tenerle insieme. Come non è facile capire l’ambivalenza dello scenario che si sta delineando intorno al “personaggio” Saviano. Sullo schermo televisivo e in piazza. Però bisogna provare a rifletterci. Saviano è sotto scorta: nel mirino della camorra, parla alla folla di Casal di Principe protetto dal mirino dei tiratori scelti. Tiro incrociato tra massima sorveglianza e massima esposizione. Visibilità blindata. Come i capi di stato, come i leader, come i divi. Come nelle grandi rappresentazioni dei media, come in un film. Ha sfidato la camorra con la letteratura, e adesso (consapevolmente?) sta sfidando stampa e tv con il suo corpo. “La camorra si combatte raccontando e pretendendo: bisogna prendere parte e decidere da che parte stare” dice al Tg1.

Non finisce di darci da pensare, Saviano. Lunedì scorso a Casal Di Principe ha esordito invocando il diritto alla felicità, cui hanno diritto i giovani del suo paese. Felicità. Anche Veltroni la adora (la politica è al servizio della felicità). Aldo Giovanni e Giacomo e Muccino ci hanno intitolato addirittura i loro film (Chiedimi se sono felice, La ricerca della felicità)

Il diritto alla felicità è iscritto nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Diritto (e obiettivo) individuale, piuttosto che collettivo. Un altro cortocircuito comunicativo? Una declinazione confusa di parole troppo grandi? E poi, ci insegnano i filosofi, siamo sicuri che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità?

14 set 2007

Fiction anch’io… no tu no

Giannini

Divise. Da maresciallo e da generale, da finanziere e da guardiamarina, da commissario e da ispettore. Gradi, mostrine, cordoncini, stellette, medaglie. Sono tornati a sovrascrivere la realtà. Hanno l’ambizione di spiegarla, la realtà, di raccontarla, e di indurci alla riflessione. Un mix di pedagogia e di sentimenti popolari, eroici, condivisi. Così i morti risorgono nelle miniserie di cronaca e storia, vedi qualche giorno fa il generale Dalla Chiesa; mentre i vivi, e vegeti come Ricky Memphis di Distretto di polizia e Sergio Amato de La squadra, vengono sepolti dagli sceneggiatori per motivi di audience. Si riporta in vita chi è morto nella realtà; si eliminano coloro ai quali si è plasmata la vita nella fiction. Il destino nel fuoco incrociato della tv.

E allora, conviene alla Guardia Forestale arrabbiarsi così tanto? Perché il malumore sta crescendo, come ha raccontato su La Stampa di ieri Francesco Rigetti nell’accurata ricognizione tra i dirigenti del Corpo Forestale: “Rai e Mediaset ci lasciano senza fiction. Siamo rimasti gli ultimi a non avere un nostro eroe televisivo”.

Certo, non hanno tutti i torti. Passino poliziotti e carabinieri, ma che Il Capitano e Gente di mare gli freghino anche i temi della difesa dell’ambiente no! E che dire della polizia carceraria celebrata in un serial con Virna Lisi? E le belle e affascinanti donne in divisa, credete che noi non le abbiamo? Soprattutto, ai Forestali non va giù che i Finanzieri, i più odiati dagli italiani per via delle multe e degli scontrini fiscali, diventino simpatici vicini di casa. Loro invece, al vertice di ogni sondaggio di gradimento, nulla. Non esistono.

Così il copione della fiction se lo sono scritti da sé e hanno pure coinvolto Flavio Insinna (capitano dei carabinieri di Don Matteo prima dei pacchi!) in uno spot contro i pericoli degli incendi boschivi. Manco per idea: tutto bocciato dai network.

Resistere per esistere. Giuro, se i Forestali promuovono uno sciopero per diritto all’esistenza televisiva sarò con loro e con il loro copione. Mi piacerebbe vedere come si vedono loro, che clichè si cuciono addosso, e cosa confessano tra le righe. Come si raccontano e che cosa rubano al linguaggio della tv.

E a pensarci bene: perché le miniserie storiche non le facciamo scrivere agli studenti? Prendiamo Dalla Chiesa: era una fiction imbrigliata nella cronologia. Ma chi ragiona più per cronologie? Agli studenti farei realizzare il loro Garibaldi, il loro Moro. Con la clausola del telefonino. Cosa sarebbe accaduto se fosse già esistito l’sms a quei tempi? E invece non c’era: sudate ragazzi! Sette camicie, come i Forestali.

07 set 2007

Apriti cielo!

Ambra Angiolini

Ambra madrina della Mostra del Cinema di Venezia. E’ il nulla, tuonano i critici più illustri (dalle pagine dei rotocalchi di gossip). Non le perdonano l’intervista a Gesù, il tormentone “Ambra c’è!”, la foto in croce e il diavoletto di Non è la Rai. Dopo quindici anni, Ambra Angiolini ha ancora il bollino rosso di ectoplasma televisivo, replicante, emblema della pedofilia della seconda Repubblica, dark lady con la perversione dell’auricolare. E’ rimasta cristallizzata in quel clichè, buffamente, mentre il consanguineo Fiorello, che insieme a lei imperava su Italia1 con il famigerato (per gli illustri critici) karaoke viene sdoganato grazie al trionfo di Viva Radio2, e nessuno ricorda - o tantomeno cita - la lunga coda di cavallo che sventolava sui terribili cappottoni giallo canarino del dominatore delle piazze storiche italiane.

Ambra intanto, abbandonato l’auricolare di Boncompagni, ha cominciato a camminare sulle sue gambe. Salti, scivolate, sprint, capriole. Tv, teatro, canzone e cinema. Pluripremiata per la sua interpretazione nel film di Ozpetek Saturno contro e ora al lavoro sul set di Cristina Comencini.

Incede a Venezia con aria ironica e sorriso illuminato. Chissà che pensa, chissà che prova per questa nuova consacrazione sul tappeto rosso.

Quindici anni fa, quando fu santificata tra i luccicori della televisione, Ambra diceva di sentirsi con un piede in Paradiso. Aveva suppergiù l'età in cui Maria Goretti entrò nel regno dei cieli. Nessuna intenzione blasfema, per carità. Ma fulgori analoghi, e sorprendenti capovolgimenti di senso tra due storie parallele. Entrambe caste dive, icone bambine, con la dedizione che sfiora l’eroismo. A chi le chiedeva che cosa era stato Non è la Rai, Ambra rispondeva: “Un corso di religione dove ho incontrato il mio maestro spirituale”. Strana coincidenza, mentre ai provini per un film su Santa Maria Goretti che si svolgevano proprio in quei giorni tra la ressa di bambine e mamme palpitanti in puro stile Bellissima, il regista dichiarava alla stampa: “Maria Goretti la vorrei con il sorriso di Audrey Hepburn in Vacanze romane”.

Ambra, attrice e testimone di buon auspicio, c’è - che i critici lo vogliano o no - e sta facendo miracoli tra ascesi e ascesa, sotto l’occhio voyeuristico del mondo.

4 ago 2007

Scandalo al sole

Mostra Vade Retro

“Lo scandalo è la censura. Nella democrazia la censura dimostra l’impotenza della politica, cioè di parlare di cose vere e serie”. Lo dice David Parenzo di TeleLombardia a Otto e 1/2, su La7, ospite della puntata dedicata alla mostra milanese Vade retro. Arte e omosessualità chiusa ancor prima di essere inaugurata. Ogni estate uno scandalo scoppia con la violenza di un temporale e inzuppa le conversazioni balneari: lo scorso agosto furono la confessione in diretta televisiva di Gunther Grass, che raccontò i suoi trascorsi giovanili nelle SS tedesche, e l’incoronazione a sex symbol di Padre Georg, segretario del papa, su Novella 2000. Quest'anno il temporale estivo ha preso di mira il sindaco Letizia Moratti e il suo assessore alla cultura Vittorio Sgarbi.

La notizia si dilata, si distorce. Dichiarazioni lapidarie: la censura della mostra è un’operazione furba e cinica perché fare scandalo alimenta il successo. No, è che anche le mostre sono diventate vittime del bipolarismo bastardo. Il problema è un altro: non c’è più scandalo ma solo nichilismo dei tempi.

A Otto e 1/2 Pietrangelo Buttafuoco accende l’ecoscandaglio. Vuole schivare gli scogli della polemica e affrontare con i suoi ospiti televisivi il mare aperto, tra etica ed estetica come tra Scilla e Cariddi. Ditemi, si possono considerare opere d’arte il papa in mutande e Cristo al posto del transessuale? Ci si può sentire offesi da un’opera d’arte? Siamo sicuri che “vietato vietare” valga sempre?

Preso l’abbrivio, gli ospiti strambano tra Caravaggio che usava le prostitute come modelle, Michelangelo vittima dei braghettoni come le gemelle Kessler lo furono delle calzamaglie nere e la Fontana orinatoio di Duchamp, allegorica dissacrazione in porcellana della Vergine Madre. “Ma perché i carabinieri devono difendere Duchamp e non i credenti?” obietta Buttafuoco.

Serpeggia il mal di mare. E se ce ne tornassimo tutti sulla spiaggia o almeno sul bordo della piscina? E se fosse lì la mostra più interessante, l’arena speciale, il laboratorio per affinare lo sguardo? Per scrutare, fissare, lanciare occhiate, guardare con la coda dell’occhio, fingere di non guardare, guardare da un’altra parte. Sarà banale, ma per nascondersi e osservare il mondo in modo non invadente in fondo basta un paio di occhiali da sole. Occhiali anti-censura. Occhiali anti-scandalo. E per meditare sotto l’ombrellone, una frase di Erving Goffman: “quando i corpi sono nudi gli sguardi sono vestiti”.

25 lug 2007

Che giorno èèè, che anno èèè…

Grimilde

Una bolla di vetro con i fiocchi di neve che cadono lenti lenti. E’ il souvenir che ci regalano le repliche estive della tv. Tutte le puntate invernali ritrasmesse quotidianamente, pomeriggio dopo pomeriggio, a L’Italia sul Due. La storia va avanti dai primi di giugno, immagino proseguirà fino a ottobre. Diciamo quattro mesi di flusso e riflusso del vecchio calendario. Me ne sono accorta riascoltando le interviste sulla vicenda di Veronica Lario e sul delitto di Erba; rivedendo i panorami innevati, e cappotti sciarpe e maglioni mentre i 40° si infilano sotto le serrande abbassate. Déjà-vu: Alessandro Meluzzi parla di “effetto gatto schiacciato” a proposito della morbosità della gente comune, Raoul Montanari cita Lucrezio e il piacere di assistere a una crudeltà, Giancarlo De Cataldo invita a mettere una targa a Erba: “Qui fu consumato un delitto e fu accusato un padre che era un cittadino straniero”.

Alcuni passaggi di altre puntate me li ero persi: il commento del conduttore sul fatto che i registi non sanno più come vestire le prostitute nei film, perché per strada le donne somigliano e si vestono sempre di più secondo il clichè della prostituta. Da cui, riflessione sul fatto che i registi non possono più attingere alla realtà e lunga discussione a seguire sul vestitino da cocktail di Lory Del Santo che va sempre bene perché tanto in televisione “non c’è problema di orario”. Essere e Tempo a rotta di collo.

Sull’abitudine di replicare all’infinito le serie delle fiction si polemizza da anni. Ma è la prima volta, mi pare, che anche i programmi in diretta vengono proposti in replica (nella stessa fascia oraria dell’originale e senza bollino in sovrimpressione che denunci il già trasmesso). Un talk show quotidiano costruito come un rotocalco sulla notizia calda, per lo più di cronaca nera e di costume, che sembrerebbe destinata a sfiorire con il tramonto, a non lasciare traccia, e invece viene ripresentata come se fosse appena avvenuta. Che significa? E’ la forma estrema di autocelebrazione della tv? La ridondanza per farsi ricordare? Gli stessi volti ri-esposti per rassicurare sulla continuità, sull’eterno ritorno? Insomma: l’ancòra come àncora?

Su Italia 1 è riapparsa in prima serata anche la puntata pilota di Grimilde, che andò in onda un anno fa durante i Mondiali di calcio. Doveva aprire una serie che Alba Parietti accarezzava da cinque anni. Non se n’è fatto più niente, ma quella puntata è sempre lì, un jolly di streghe dello spettacolo confessate e comunicate. Wanna Marchi, Anna La Rosa, Katia Ricciarelli, hic et nunc. C’è pure Vladimir Luxuria che schiocca un bacio infuocato sulle labbra di Alba e squaglia la neve nella bolla di vetro. Déjà-vu anche questo, più o meno onorevole. Ma allora neanche gli onorevoli vanno più in vacanza? Risponde la televisione, laconica: ho diritto di replica.

5 lug 2007

Transformers 500

Festa 500

E se il cubo di Energon, capace di dare vita alla materia inerme, fosse nascosto al Lingotto? Se ci fossero gli Autobot e i Decepticon dietro l’avventura della nuova Fiat 500? Su Canale 5, in diretta dai Murazzi del Po, fuoco e fiamme, acrobazie robotiche, il Monte dei Cappuccini che sparisce tra i fumi pirotecnici. Macchinine che planano, decollano, ondeggiano sull’acqua. La Cinquecento come la Camaro-Bumblebee, creatura mutante scesa tra gli umani per salvarli dalla catastrofe, carrozzeria potente e parole lungimiranti: “Anche se non lo sai, c’è più di quel che vedi”.

Che ci troviamo in una clima da Transformers lo vedo nel maglioncino nero di Sergio Marchionne; nei quattro elefantoni che si infilano nell’abitacolo come da barzelletta; nelle parole di Piero Chiambretti che desidera un modello color granata come il vecchio Toro (ma non era il testimonial di una casa automobilistica concorrente?); nelle curve della violinista sexy e di Anita Ekberg stile dolce vita. Per non parlare di Marylin Monroe che sussurra Happy Birthday non a JFK ma a un’auto spalmata di panna e cioccolato. Insomma, un esercito di Cinquecento impegnate in metamorfosi zuccherose, incandescenti, ipertecnologiche.

Che spettacolo magnifico, fantastico, grandioso, emozionante! La conduttrice di Canale5 non lesina i superlativi. Certo, sull’ecologia del linguaggio (vedi la crociata di Massimo Gramellini su La Stampa)  c’è ancora molto da lavorare. Ma c’è anche molto da riflettere su tutti questi desideri, passioni, emozioni incarnati in un’auto (vedi l’ecologia del fare ambientale di Walter Veltroni). Che il mercato plasmi l’anima degli oggetti e li trasformi in risorse di esperienza e avventura non è cosa nuova. Però nella Cinquecento si è voluto far entrare proprio tutto: l’amore, il sesso, la famiglia, il viaggio, la cultura, la memoria, la storia d’Italia. Il passato e il futuro. Le ideologie, anche loro risucchiate nei fotogrammi storici delle tute blu ai cancelli di Mirafiori, delle femministe in corteo, di Falcone e Borsellino, tutti nello spot promozionale in onda negli intervalli della diretta televisiva. Immagini in rotta di collisione. Come ci si sente a stare nello spot di un’automobile, verrebbe da chiedere ai due giudici che su di un’automobile sono saltati in aria?

“Anche se non lo sai, c’è più di quel che vedi”.

21 giu 2007

Erba o non Erba?

Azouz

Rigorosamente aderente alla realtà. Racconto diretto. Forte ancoraggio all’informazione. Con questa infilata di parole Enrico Mentana presenta lo speciale di Matrix “Erba. I giorni dell’odio” (scritto e diretto da Giorgio J. Squarcia). Docu-fiction in prima serata sulla strage condominiale di qualche mese fa, con attori che somigliano in modo impressionante a Raffaella Castagna, al marito Azouz, a Rosa Bazzi e Olindo Romano e pure ai rappresentanti delle forze dell’ordine, anche se poi capita che il vero maresciallo Finocchiaro – intervistato da Mentana al termine della docufiction - sia più attore consumato del suo interprete.

Una galleria di facce, acconciature, posture, interni domestici, cortili, celle, camere di detenzione che dà da pensare. Tutto doppio e se non basta anche l’effetto matrioska: stanza d’ospedale, il vicino di casa sopravvissuto al massacro, un giudice che lo interroga e ai piedi del letto uno sconosciuto di spalle che filma la vittima con una telecamera digitale. Il display della telecamera in primo piano: per guardare la realtà come rappresentazione o la rappresentazione come realtà? Provo a immaginare la risposta del regista: la rappresentazione della realtà è così simile al reale che con questo accorgimento visivo io correggo e prevengo la tua possibile confusione. Ti dico: guarda, ma sta in guardia.

A me sembra manierismo compiaciuto, vorrei obiettare. E sto per dirgli: potrebbe essere vero anche il contrario. Quell’omino con la telecamerina sembra un turista di passaggio che vuole portarsi a casa una sequenza catturata “dal vivo”.

Rosa

Ma sono distratta dalla scena del crimine. Dalla scena televisiva del crimine, che non è un letto d’ospedale, un pianerottolo, un’infilata di stanze, o lo stropicciamento delle immagini del massacro, scure e sporche, o il grido disperato “O dio mio!” della madre di Raffaella mentre viene sgozzata. La scena del crimine è il luminoso gioco di sguardi in primissimo piano. L’occhio di Azouz e l’occhio di Rosa, le loro facce ingigantite ad occupare tutto il campo visivo.

Mentana mi aveva avvertito: rigorosa aderenza alla realtà. E ora mi abbandona al rompicapo. Perché dei due sguardi - gli occhi di Azouz e gli occhi di Rosa - uno appartiene al ‘reale’ protagonista della vicenda di cronaca e l’altro all’attore della fiction. Entrambi gli sguardi raccontano emozioni, stati d’animo da pelle d’oca. Veri, verosimili. Ma quale dei due fotogrammi devo stare a sentire?

15 giu 2007

Visi d'arte

Gaia de Laurentiis

Era bella, bellissima, Gaia de Laurentiis. Ma era soprattutto una donna della cosiddetta “tv di qualità”. Il sorriso luminoso, il caschetto liscio e biondissimo immerso nella scenografia virtuale, barocca, patinata di Target. Su Canale 5 presentava arte, teatro, musica, moda. Sempre in primissimo piano. Gaia era una creatura di Gregorio Paolini, capostruttura di grido a metà degli anni Novanta, quel Paolini che in polemica con il Pippo nazionale si era messo in testa di “sprovincializzare con l’ironia la tv italiana”. Sparito nel nulla, lui. Baudo a Sanremo. E Gaia a promuovere materassi sulle reti commerciali.

Ed eccola oggi pomeriggio ospite a L’Italia sul Due in versione castana. Ancora molto bella, ancora in primissimo piano. Un po’ malinconica. Mi ricorda un’altra donna della tv, ma non riesco a mettere a fuoco chi. Si racconta. “La televisione non aiuta ad accettare il proprio corpo”. Colpo di scena. Oltre la solarità della faccia c’era un seno troppo grande tagliato fuori dallo schermo. “Gaia, ma io pensavo tu avessi il culone e i coscioni”, la interrompe Emanuela Falcetti in collegamento da Roma. “Ce li ho”. Hai capito a che pensava la Falcetti guardando Target?! Lei immaginava, guardava oltre, mentre io mi bevevo i servizi sulle mostre d’arte, prendevo appunti sugli spettacoli teatrali, memorizzavo le interviste agli intellettuali. E mi perdevo culone e coscioni.

Silenzio, parla Meluzzi, lo psichiatra. “Gaia era una grande professionista di una tv in cui lei funzionava straordinariamente ed era molto innovativa perché era come se il suo viso fosse una specie di icona bionica. Anche in questo c’è la strana legge del contrappasso. Lei che era un’icona asettica, teorica, come se fosse l’icona di un computer, si rivela poi invece in pratica talmente riservata rispetto al suo privato…” Lo interrompono, non saprò mai che cosa voleva dire. E intanto non riesco a mettere a fuoco chi mi ricorda Gaia… così pallida, mesta, lo sguardo basso, mai in camera. Occhi verso l’infinito. “Arriva un’età in cui le persone intorno a te cominciano a morire: è pazzesco. Ti accorgi che sei diventata grande perché gli altri invecchiano e cominciano ad andarsene”. Così comincia la sua ricerca d’equilibrio interiore, di serenità, commenta il conduttore… Ecco!

Claudia Koll

Ecco chi mi ricorda Gaia: un’altra bellissima, pallida icona femminile. Dissolta e poi ricomparsa sullo schermo sotto nuove spoglie, totalmente trasfigurata. Sommessa, sguardo rivolto lontano, lunghi gonnoni bianchi a nascondere le forme e lunghi capelli sulle spalle alla Maria Maddalena. Claudia Koll! Nessuno lo ricorda più, ma anche Claudia è stata una creatura di Gregorio Paolini. Anche lei fu lanciata a tutta cultura nelle notti dell’Angelo, un programma d’arte di Canale 5 di dieci anni fa contemporaneo a Target. Anche lei oggi fa telepromozioni: per il VIS (Volontariato internazione per lo sviluppo). Illuminata dalla fede.

La tv non aiuterà ad accettare il proprio corpo, ma contribuisce a cambiare l’anima. E a volte fa miracoli.

8 giu 2007

La pesca miracolosa

Falsi Modigliani

Sono tornate ieri sera a La storia siamo noi di Giovanni Minoli dopo ventitrè anni di quieto riposo in un armadio del Comune di Livorno. La loro storia è ancora esilarante, tragicocomica, con contorni gialli e neri irrisolti.

Il 24 luglio 1984 nel Fosso Reale di Livorno vengono ripescate due teste di pietra stilizzate. Secondo la leggenda, Amedeo Modigliani le avrebbe prima scolpite e poi, insoddisfatto del lavoro, buttate nel canale prima di ripartire per Parigi. Sono rimaste sepolte per 75 anni. Davanti alle televisioni di mezzo mondo, gli storici dell’arte gridano al miracolo. Non c’è ombra di dubbio: secondo Ludovico Ragghianti, Carlo Tullio Argan e Cesare Brandi  le due teste sono di Modigliani. “In quelle due scabre pietre c’è la luce, la presenza”, “finezze di taglio inequivocabile”, “Modigliani non ha tradito la materia”. Vengono battezzate Modì 1 e Modì 2. La sovrintendente Vera Durbé che ha voluto fermamente gli scavi è soddisfatta, lei se lo sentiva che le pietre erano lì, le ha indicate con l’indice, “scavate lì” ha detto, e lì sono state trovate.

Pietro Luridiana e i suoi tre amici livornesi invece guardano perplessi i telegiornali. Dopo il divertimento iniziale cominciano a preoccuparsi. Perché sono loro gli scultori di una delle due teste di Modì. Visto che tutti si affannavano inutilmente a cercare le teste, gliene hanno fatta trovare una loro. Uno scherzo, una burla in perfetto stile toscano. A colpi di martello, cacciavite e trapano in due giorni trasformano un’anonima pietra in un Modi e la buttano nel canale. Poche ore dopo viene ritrovata.

Però. Modì 2 è opera loro, ma l’altra pietra? E’ autentica?  Pietro e gli altri burloni aspettano che i critici d’arte si ravvedano, invece le draghe continuano a scavare e trovano una terza pietra. Negli stessi giorni a Parigi la figlia di Modigliani cade misteriosamente dalle scale e muore. Strane coincidenze.

Visto che ormai tutti danno per autentiche le tre teste, i ragazzi decidono di rivelare pubblicamente lo scherzo. ‘Panorama’ pubblica la confessione, ma critici e sovrintendenza non demordono, le teste sono di Modigliani. Ci vuole una prova, la prova regina: la prova della televisione. Uno speciale del TG1 in diretta il 10 settembre. I ragazzi rilassati, sorridenti davanti alle telecamere scolpiscono una nuova testa con il black&decker. Federico Zeri nella poltrona fiorita della sua casa di Mentana commenta divertito. Chiede all’autore delle altre due teste di venire allo scoperto. E Angelo Froglia, pittore livornese che fa il portuale rivela la sua provocazione artistica, fatta per screditare il mondo dell’arte. Un’azione rivoluzionaria. “E’ facile essere bravi con Black&Decker” recita la pubblicità del trapano sulle pagine di ‘Repubblica’.

Dopo la beffa dei Modì le avventure dell’arte in televisione non saranno più le stesse. Cambia il modo di raccontarle. Entrano lo spettacolo della diretta, l’attualità, lo scoop, il gossip, la provocazione, l’invettiva. “Quella trasmissione mi cambiò la vita” disse Federico Zeri, che da quel giorno diventò l’enfant terrible della televisione italiana. Con un memorabile commento sulla facilità con cui si riesce a falsificare l’arte moderna: “Il filo tra vero e falso viene a fondersi in un unico calderone in cui, come in talune zuppe di verdura, tutto è buono, tutto fa brodo”.

1 giu 2007

SOS Montessori / 2

Maria Montessori pensa

La fiction impasta rughe posticce sulla faccia dei suoi protagonisti. Sono quasi sempre impietose e quasi mai rendono giustizia alla verità della vecchiaia. Non fanno eccezione quelle di Maria Montessori e non v’è dubbio: stava meglio con le rughe delle millelire. Ma per i registi la tentazione di rendere fisionomicamente il trascorrere del tempo è troppo forte e i truccatori televisivi si adeguano come possono.

Fatto sta che Paola Cortellesi, dopo che l’amato professore di psichiatria le porta via il figlio appena nato e lo affida a una famiglia contadina, invecchia di colpo. Urla il suo dolore in una sequenza vorticosa, si blinda nella sua stanza per due giorni e una notte. Poi, calma piatta. Da questo momento solo abiti neri e solo bambini. Quelli degli altri. Il suo potrà vederlo ogni tanto, a patto di tenere segreta la maternità.

Tra le baracche di San Lorenzo nasce la prima Casa dei Bambini. Via le lavagne a misura di insegnante e i lugubri armadi chiusi a chiave. Maria riparte dall’organizzazione dello spazio. I bambini sono più attratti dal materiale didattico che dai giocattoli “perché vogliono imparare”. Aiutiamoli a crescere, a diventare autonomi, dice, mentre loro in tranquilla collaborazione diventano essi stessi i migliori maestri per gli adulti e per le proprie famiglie.

Destino beffardo: suo figlio nel frattempo cresce a suon di ceffoni e di collegio. E tanti pregiudizi: “La verità è che lei non è una madre e nella sua pedagogia si sente” le dice un funzionario del governo. Ma Maria non si ferma, anche quando è costretta a fuggire dall’Italia mussoliniana. Sul treno che si allontana e che porta madre e figlio - ormai adulto e antifascista - in salvo all’estero, però partono anche i titoli di coda. La storia televisiva di Maria Montessori finisce qui e si vorrebbe che continuasse.

Perdono quel treno invece, alle 23 e 30 circa, Matrix e Porta a Porta. Sì, ancora loro, a reti unificate. Rignano fa rima con Marsciano. Su RaiUno: “Quando l’orrore ti dorme accanto”. Su Canale 5: “Qualcosa di inumano che non riusciamo a capire”. Identici servizi, identiche interviste, identiche dichiarazioni. Roba da strabismo catodico. Quando ho capito che neanche stavolta Maria sarebbe tornata, me ne sono andata a dormire. Sconsolata, però: a fare i montessoriani con Vespa e Mentana, non si cava un ragno dal buco.

29 mag 2007

SOS Montessori

Maria Montessori

Sulle vecchie mille lire c’era il suo ritratto. Una nonnina con la crocchia, il nastrino di velluto intorno il collo, due profondi segni d’espressione a inquadrare un sorriso evanescente. Senza età. Come se fosse nata già così, Maria Montessori, con lo chignon e il cammeo. Come anch’io l’ho sempre immaginata.

Invece ieri sera, nella prima puntata della fiction di Canale 5 (regia di G. M. Tavarelli), Paola Cortellesi ha cacciato fuori i vent’anni di Maria. L’energia e l’incoscienza dei vent’anni, con il surplus simpatico della sua faccia da schiaffi. Certo, Maria Montessori è una che alla facoltà di Medicina nel 1896 incide il cadavere di una giovane sifilitica con un taglio netto di bisturi, mentre i colleghi maschi arretrano inorriditi. Certo, è una con le spalle coperte da una famiglia agiata e colta, con una madre che le dice: “Quando sei nata ho sentito una gioia infinita e una infinita tristezza”. Una madre consapevole a metà Ottocento che le gioie della maternità collidono con la realizzazione fuori dalle mura domestiche e che per questo, a maggior ragione, sosterrà la figlia senza però mai infilarsi nelle sue scelte.

Insomma, solidità materiale e di affetti Maria ne ha parecchia. Ma non basta. Contravvenendo alle regole sociali del tempo, paga sul piano personale. Resta incinta, e il bel professorino di psichiatria non ha più le idee tanto chiare. Comincia persino a nutrire invidia per il successo di Maria. O forse per il carattere che lui non possiede: l’indipendenza di giudizio, la passione che rifugge il sentimentalismo, l’intelligenza che si rimbocca le maniche per mettersi pazientemente in osservazione. Osservazione dei bambini e osservazione del mondo attraverso lo sguardo dei bambini. Con metodo amorevolmente scientifico, Maria inventa grimaldelli per aprire la scatola del mondo, per entrarci con i bambini che la scienza definisce ‘deficienti’, per correre con loro verso le passioni e la gioia di vivere. “I sensi sono le loro porte sul mondo”, dice quando i piccoli imparano a leggere e scrivere meglio dei bambini ‘normali’. Sperimenta, prova, aggiusta. E i bambini non guardano più nel vuoto.

La prima puntata è finita e dopo cinque minuti di pubblicità Matrix apre le porte dell’asilo di Rignano. Manco a farlo apposta, altri bambini che stanno male, ma nessuno, proprio nessuno capisce perché. Tanto da dar per certa una setta di porno-pedofili appostati tra bagni e sgabuzzini della scuola, perché tutto quello che sta fuori dalle mura domestiche ormai è pericolo, tentazione, diavoleria. Ho tanto sperato che al posto della Palombelli  arrivasse Maria Montessori a dirgliene quattro. Per esempio sull’ansia da prestazione digitale di genitori che privilegiano l’osservazione dei loro bambini attraverso telecamere e telecamerine.

Quando ho capito che Maria non sarebbe arrivata, me ne sono andata a dormire. Fiduciosa nella seconda puntata di domani (continua).

23 mag 2007

Il divano di Procuste

Gianfranca non l’ha mai raccontato a nessuno, non al marito, né alla figlia. Per paura di non essere capita. Poi in televisione vede il programma di Alda D’Eusanio (Ricomincio da qui, ogni pomeriggio alle 16 su RaiDue) e si dice: “Questo è il momento giusto”. Il momento di parlare.

“Ti sei fidata di me” suggerisce Alda accompagnandola al divanetto. Gianfranca annuisce, si siede, sistema le pieghe del vestito a fiori rossi e bianchi e racconta la sua fobia. Ha paura di borsette e portafogli, non sopporta la loro prossimità, le procurano continui attacchi di panico. Borsette delle amiche e portafogli dei colleghi. Teme che i legittimi proprietari possano pensare che lei è una ladra. Invece lei è onesta. Semplicemente, ha avuto un passato difficile.

Alda D'Eusanio

Avanti, la esorta Alda, apriamo i cassetti dell’infanzia, facciamo prendere aria al dolore. E alla veneranda età di 66 anni Gianfranca snocciola le angherie della matrigna subite fin da quando era una bimbetta. Ripercorre la vita da Cenerentola, i silenzi del padre, la misera tazza di latte per cena, le botte per una cassettina di spiccioli aperta erroneamente. Tutte le prepotenze che da sessant’anni non riesce a dimenticare, a perdonare. Che si sono annidate nelle pieghe della fobia.

Alda la rincuora: essere arrivata in televisione è importante. E’ un atto di coraggio. Questo è un trampolino di lancio. Pensa un po’ Gianfranca, fino a un minuto fa neanche tuo marito e tua figlia conoscevano la tua infelicità. E invece adesso la sanno milioni di persone! Non ti senti già meglio?

Gianfranca è in primissimo piano, lo zoom macroscopico inquadra il dettaglio della lacrima che scende dal ciglio, il fremito del labbro. La misura della sofferenza è tagliata sulle dimensioni della faccia. Come Procuste stirava e amputava i corpi dei malcapitati viandanti per costringerli a entrare nel suo letto di ferro, così la telecamera stringe e allarga sui dettagli somatici per catturare le emozioni. Ti inquadra in una condizione di spirito tormentosa, in una situazione difficile e intollerabile. Ti accorcia e ti allunga in formato televisivo.

A questo punto vieni consegnato nelle mani dei medici dell’anima. Psicologi, nutrizionisti, chirurghi, avvocati. Anche loro a misura del tuo problema. Per Gianfranca hanno scelto una teologa: ricordati, le dice suor Roberta, che “la misericordia ci libera dalla fatica, sii misericordiosa per te stessa”. Anche la teologia si stira e si restringe sul credo dello schermo, rivolgendo il nobile sentimento della compassione non più verso le sofferenze del prossimo ma verso le proprie sofferenze. E se il divano non basta, conclude suor Roberta, rivolgiti all’associazione Rinnovamento dello Spirito Santo. Specializzata in celesti sommier che risanano le ferite della memoria.

14 mag 2007

The day after

Beautiful

Neanche a farlo apposta, tra i vecchi ritagli di quotidiani l’altro ieri ho trovato un trafiletto ingiallito di “Repubblica” risalente a quasi dieci anni fa. Non ricordo con quale spirito l’avevo messo da parte, forse pensavo al futuro e infatti il futuro è arrivato. La notiziola del trafiletto riguarda don Vito Stramaccia, parroco di San Nicolò, periferia di Spoleto, che nel lontano 20 gennaio 1998 durante la santa messa collocò sull’altare un televisore, lo collegò al videoregistratore e disse ai suoi fedeli: “Il messaggio che ogni giorno arriva a milioni di persone non è quello del Vangelo. La realtà ha un altro svolgimento”. Don Vito spinse il tasto play e tra gli incensi domenicali partì una puntata di Beautiful. Una sequenza di dieci minuti di uno dei tanti matrimoni celebrati nella soap. Poi Don Vito spense il videoregistratore e commentò: “Ecco, il matrimonio è l’esatto contrario di quello che avete visto”

L’originale omelia non ha avuto epigoni: troppo audace applicare quel metodo a temi come violenza, droga, pornografia? Ma solleva anche altre domande. Perché Don Vito non ha tenuto conto che solo tre anni prima, il 10 maggio 1995, tutto il mondo celebrava il M-day, il Marriage Day, in occasione del primo matrimonio tra Ridge e Brooke. Perché non ha previsto che matrimonio dopo matrimonio la loro coppia sarebbe diventata una roccaforte dell’amore “immutabile, forte e tenace” come dichiara Ridge in una puntata della soap.

In questi giorni Natalia Aspesi in un articolo su “Repubblica” risolleva il problema, proponendo Beautiful come testimonial del family day: “Tradimenti, incesti, figlie incinte del marito della madre ma anche madri incinte del marito della figlia, fratelli e fratellastri che sposano la stessa bella signora che sposa anche il loro babbo, ecc. Purché si salvi la famiglia”.

Sì, le derive di Beautiful sono proprio infinite. Sacrificatelo sugli altari, scopritene gli altarini. Io, che adoro i castelli di carte, continuerò a tagliuzzarlo sui giornali.

7 mag 2007

Tempi appiccicosi

Chewingum

Dieci lire, un giro di manopola e la sfera scendeva nelle nostre mani. Lucida, smagliante e plasticosa. Scoppiettava tra i denti, si gonfiava a palloncino sulle labbra e poh! esplodeva sul naso dei compagni. Un esercizio di maleducazione che da ragazzini consumavamo segretamente. Come ogni gioco proibito, con grande soddisfazione. Erano bellissime quelle biglie piene di zucchero e coloranti, un po’ meno le cicche umettate di saliva e abbandonate dove capitava.

Mastica tu che mastico anch’io, quarant’anni dopo ci troviamo in un pastrocchio universale. Tempi appiccicosi per tutti: pare che le migliaia di gomme da masticare lasciate dai turisti rendano difficile finanche il restauro della Basilica di San Pietro in Vaticano.

Ma intanto, liberate da zuccheri ed additivi, con l’alibi dell’alito risanato e della più veloce pulizia dei denti le palline di chewingum hanno messo sottosopra sia le regole igieniche che le regole del galateo. Le hanno ribaltate. Ed ecco negli spot pubblicitari gli animali che si comportano da umani e gli umani che si comportano da animali. Lo scoiattolo scorreggione che grazie alla freschezza di Vigorsol iberna il paesino in fiamme e il malcapitato motociclista con piccione in bocca che mastica Daygum per purificarsi l’alito. Che schifo! Pure la Littizzetto - che certo non brilla per bon ton sul tavolo di Che tempo che fa - ha chiesto ufficialmente il ritiro dello spot.

Nonostante ciò, in televisione si continua a ruminare a volontà. I chewingum rischierebbero di ridurre Rai e Mediaset nelle condizioni della basilica di san Pietro se non fosse per quegli ospiti e quei conduttori che hanno ancora stile da vendere. Per esempio Patty Pravo che a Domenica in estrae la poltiglia bianca dai denti e la appiccica al gambo della rosa che Pippo Baudo le ha regalato. O il nominato del Grande Fratello che mentre scende la scalinata di Buona domenica sputa la cicca e la ripone nella tasca della giacca. O Fabio Insinna che sorprende un concorrente di Affari tuoi mentre attacca la gomma sotto lo sgabello, lo redarguisce e davanti a milioni di telespettatori gli ordina di raccoglierla e consegnarla ad un addetto del programma, che la porta via avvolta in un pezzetto di carta.

E venite ancora a dirmi che la televisione non è educativa.

30 apr 2007

Inchiostro di china per Cogne

Franzoni

La villetta di Cogne. Prima scoperchiata in un plastico, poi scarnificata e ridotta a mestolo e scarpone. E adesso trasfigurata in photo-paint, imitando le tavole che un secolo fa Achille Beltrame disegnava per la copertina del “Domenica del Corriere”.

Faceva un certo effetto vedere a Studio aperto – venerdì scorso, su Italia1 - i quadri pittorici di Anna Maria Franzoni, di Stefano Lorenzi, del procuratore Corsi e dell’avvocato Paola Savio. Le telecamere e i microfoni non potevano entrare nell’aula di tribunale per l’udienza conclusiva del processo? Ed ecco la scena processuale descritta, disegnata e dipinta. Con le figure e gli oggetti abbozzati come se le telecamere fossero presenti in aula, come se respirassero l’emotività dell’evento. L’imputata ha lo sguardo dolce, il naso ingentilito, la bocca dischiusa in un’espressione infantile. Il marito le guarda le spalle pensoso. Il procuratore Corsi arringa al microfono con aria sofferta. L’avvocato Paola Savio dietro gli occhialini bianchi spinge i giudici “oltre ogni ragionevole dubbio”. Facce, gesti, posture fedeli e infedeli al tempo stesso. Immersi in un recinto sacro, con lo sguardo rivolto altrove, alla ricerca di pietas e di sentimenti eterni. Icone e santini di un processo giudiziario che ha preso la piega di un processo di canonizzazione.

Franzoni 1

Mancava ancora nell’album di Cogne questa rappresentazione in forma idealizzata, liberata dalle catene della realtà e purificata dalla tintura omologante della tv.

Per un attimo la villetta e i suoi abitanti sono fuggiti dal reality, dalla fiction, dal talk show, dai “generi” nei quali si vuole a tutti i costi imprigionarli. Hanno trovato rifugio nei quadri narrativi che, tanto tempo fa, sapevano trasformare notizie ordinarie in eventi straordinari, dettagli insignificanti in fulcri visivi. Che sapevano tuffarsi con l’inchiostro di china nei vuoti della notizia e far palpitare epicamente uno scialbo fatto di cronaca.

E’ proprio ciò di cui Cogne ha bisogno: per restare in vita, per non consumarsi ed appassire. Sublimarsi, oltrepassare la soglia del presente, entrare nel regno dell’immaginazione. Diventare un grande romanzo popolare. Con l’aiutino del fotoritocco digitale, forse ce la fa.

25 apr 2007

AAA. Avatar

Parole, parole, parole. I fans club dei reality sono pieni di parole. Un blob di blog. Diari e faccine. Emoticon. Al massimo qualche foto. Ma pur sempre immagini bidimensionali.

Questa storia sta per cambiare. L’ho letto sui giornali di questi giorni. E’ in arrivo Virtual me. In diretta nella casa del Grande Fratello ci andremo on-line con il nostro avatar, con il nostro alter ego digitale. Incontreremo gli altri fans in simulazione fisica. Interagendo a volontà. Passeggiate, litigate, sesso, procreazione. Faremo figli con il nostro dna digitale.

E tutto questo, poi, tornerà in televisione. Nel nostro vecchio, caro schermo televisivo. Potremo vedere la nostra seconda vita stravaccati in poltrona.

Second Life

La Endemol, la casa di produzione del “Grande Fratello” televisivo, ha deciso di portare la tv in rete. Se il pubblico non guarda più la televisione perché sta on-line su internet, la televisione andrà in rete a riprendersi gli spettatori. Per riportarli in televisione. Insomma, la vecchia storia di Maometto e della montagna in versione post-catodica.

Virtual me sarà un universo simile a Second Life ma più tecnologicamente e visivamente avanzato. I navigatori potranno costruire il proprio alter ego digitale e incontrare altri avatar, altre presenze simulate. Tra i concorrenti della casa televisiva e della casa virtuale non ci sarà comunicazione. Ma, dice Peter Bazalgette, capo della divisione creativa della Endemol, “è’ un progetto completamente innovativo, oserei dire rivoluzionario, che potrebbe cambiare il modo in cui oggi intendiamo la nostra relazione con la televisione”.

Cosa andremo a fare su Virtual me? A mostrare agli altri l’immagine che avremo costruito di noi stessi. Posso fare di me quello che voglio e girare liberamente con questa immagine. Sarò valutato, accettato, riconosciuto per la mia immagine. Non lo diceva anche  un personaggio di Almodovar in Tutto su mia madre? “Una è tanto più autentica quanto più assomiglia a ciò che ha sognato di se stessa”. Non avrò più bisogno di chirurgia estetica, di rifarmi il naso dalla Pivetti e Platinette. Niente bisturi. Posso apparire come ho sognato di essere, e non v’è dubbio: la tecnologia digitale fa più miracoli della chirurgia estetica.

Intanto, in televisione, non vedrò più gli abitanti della casa televisiva “reale”, ma il mio avatar, e gli altri avatar della casa “virtuale”. Il Grande Fratello di Cinecittà sarà sostituito dal Grande Fratello di internet.

Simpson

La tv sarà una spettacolarizzazione estrema della vita virtuale di internet. Niente più rappresentazione della realtà, ma rappresentazione della rappresentazione. Un’anticamera dell’universo di Matrix: per chi vive nella simulazione della “matrice” la vita reale è unicamente quella in  cui sta vivendo. E anche per i creativi di Virtual me la rivoluzione consiste nel realizzare una società intera che vive sensazioni ed emozioni virtuali in simulazione perfetta.

Oggi guardo i Simpson che guardano la televisione. Domani guarderò me stessa che vivo nella televisione.

13 apr 2007

Nessuna è perfetta

Puntata sulle labbra ieri sera, a Porta a Porta. Alba Parietti ha confessato che se potesse tornare indietro di quindici anni si terrebbe ben strette le sue labbra originali. Eccole, sullo schermo: ma che bisogno c’era di rifarsele? Ahimé! dice la Parietti, indietro non si torna, e l’unica consolazione è che la sensibilità della mucosa non cambia con il lifting: il bacio resta piacevolmente tangibile sia per la siliconata che per il partner. I miei uomini, giura, non si sono mai lamentati. Se Vespa vuole conferma, prego si accomodi. Grazie, magari nell’intervallo.

Jane Austen

Invece di ascoltare il suggerimento, Jean Austen, l’autrice di Orgoglio e Pregiudizio, cede anche lei al desiderio di una bocca carnosa. A centonovant’anni dalla morte. Nel suo unico ritratto dato per certo, un disegno fatto dalla sorella Cassandra, appare con il mento sfuggente, le labbra sottili, i capelli appiattiti da una cuffietta arricciata. Sciatta, banale. Un’immagine che collide con il successo dei suoi romanzi, continuamente ristampati e più volte trasposti in film e sceneggiati tv.

Così, per l’uscita della monografia scritta dal pronipote James Austen-Leigh, l’editore inglese Wordsworth ha pensato bene di ritoccarle il volto. Le ha riempito le labbra, ha spazzolato di blush le guance e sostituito l’orribile cuffietta con una parrucca di riccioli biondo afrodite. Ora la grande scrittrice è pronta per la copertina e per il primo piano sullo schermo di Porta a Porta. E pensare che il suo ultimo libro era una satira sul progresso e sulle sue conseguenze sui caratteri delle persone.

Adesso l’editore vuole convincere al restyling anche Virginia Woolf, con la scusa che non è certo una bellezza. Scrittrici in ristampa, state in campana.

04 apr 2007

Aspetta e vedrai

tv spenta

Le passo davanti. Le giro intorno. La guardo, mi guarda. Faccia a faccia. Io e la televisione spenta. Nei pochi metri quadrati della casa ci osserviamo. In silenzio, da settimane. Lei non parla, io non parlo. Non abbiamo litigato: è che per un po’ ho dovuto metterla da parte. Non ho potuto dedicarle neanche una briciola del mio tempo.

Lei mi guarda col muso ingrugnito. E’ superba, la mia tivù. E pure orgogliosa. Non ama che sia io a decidere se accenderla o spegnerla. Provo a farla ragionare. Tesoro, non posso proprio guardarti adesso. Stai lì buona buona, in silenzio. Riposati i pixel. Io mi devo occupare d’altro. “Ma sono io quello che accade mentre tu ti stai occupando d’altro” mi risponde lei, perentoria, assertiva.

No, ti sbagli: è la vita, quella. La vita è quello che accade mentre ci stiamo occupando d’altro. E ti prego, non confondermi le idee con i paradossi e i giochi di parole. Stai tranquilla e rilassati. Non è che non ho voglia di parlare con te. Non è che ti ho abbandonata. Non è cambiato nulla tra noi. E’ semplicemente che ci sono cose che tu non puoi capire, nelle quali in questo momento non ti posso proprio coinvolgere. Non mi potresti aiutare. Ma torno presto, non preoccuparti.

Lancio un’occhiata allo schermo spento. E’ patetico, melodrammatico. Cerca di prendermi con i sensi di colpa. Tanto che per un attimo penso: ecco, adesso si mette a lacrimare come una madonnina.

Invece sembra si sia rassegnata. Forse la mia tv sta imparando l’arte della pazienza. O mi aspetta al varco, consumando freddamente la vendetta. Forse va avanti da sola, e mi lascia indietro. Non lo so, staremo a vedere. Tra qualche giorno.

03 feb 2007

Raccontala ancora

Compie cinquant’anni, oggi. Sotto la tortura dei ricordi, potrei dire: toglietemi tutto della mia infanzia, ma non Carosello. Sono nel luogo comune, giacché secondo il sondaggio che pubblicitari, esperti di marketing, sociologi e psicologi hanno fatto su un focus di telespettatori tra gli 11 anni e i 60, i personaggi di Carosello sono ancora oggi “più efficaci e forti rispetto anche alle più famose star di Hollywood”.

Il gigante amico

Un piccolo focus l’avevo fatto tempo fa con la mia nipotina di quattro anni. Raccontandole la storia del Gigante Amico. C’era una volta un paese felice ai piedi di una montagna, dove tutti vivevano contenti. Ma un brutto giorno arrivò in picchiata Joe Condor, mettendo tutto sottosopra. Gli abitanti non si persero d’animo e invocarono l’amico della montagna: Giganteee pensaci tuuuu!

Ancora, ancora, raccontala ancora. Alla decima volta, ho cominciato a fare variazioni sul tema. Il prato di grano prima della mietitura, con i papaveri che rosseggiano… La montagna scura, le rocce aguzze blablabla… E lei, perentoria: “Zia, non mi devi spiegare, mi devi raccontare”. Lo ha proprio scandito: rac-con-ta-re.

Colpita nel mio amor proprio, ho ricominciato senza spiegare. Trenta secondi di racconto. Per tutto il pomeriggio.

Adesso va a scuola, la nipote. Ma se dico “Joe Condor” lei risponde “Gigante, pensaci tu”. Anche se non lo ha  mai visto o ascoltato in tv, Joe Condor è uno dei suoi eroi. Come era il mio. E non ditemi che è questione di dna.

01 feb 2007

Bagattelle per un massacro

Matrimonio

Oggi, chiesa di Santa Chiara a Napoli, fiori d’arancio sull’altare. Omelia all’amore coniugale. L’amore è donazione, ma soprattutto, dice il frate francescano alla giovane coppia di sposi, “l’amore non è una bagattella”.

In 24 ore la parola “bagattella” ha camminato linguisticamente dall’accezione  manzoniana di cosa di nessun conto, bazzecola, all’ossimoro controverso del romanzo di Louis-Ferdinand Céline, fino al riferimento galante e spensierato del nuovo lessico berlusconiano. In 24 ore, la bagattella è saltata dalla polvere all’altare.

Dall’altra parte della barricata, La metà di niente di Catherine Dunne ha fortificato lo tsunami dei sentimenti di Veronica Lario. E in 24 ore il romanzo ha sbancato le librerie.

Ancora, in 24 ore: i giornalisti imbucano l’epistolario nella cassetta del reality e della soap (i format televisivi che più detestano), i filosofi profetizzano (Massimo Cacciari: “il loro matrimonio è finito”), la scrittrice Catherine Dunne intervistata a Fahrenheit su Rai RadioTre dichiara la sua simpatia per la moglie dell’ex premier.

Tutto ci si poteva aspettare da questo scontro di titani mediatici, fuorché la discesa in campo della letteratura. Grazie Veronica, grazie Silvio per un pugno di libri.

Ora, dopo l’omelia, scambiatevi il segno della pace.

21 gen 2007

Erba di casa mia

Gira in questi giorni il tormentone: “E’ meglio l’erba del vicino che i vicini di Erba”. E di rimando: “Non fate di ogni Erba un fascio”. A forza di erba di qua ed erba di là, mi è tornata in mente una canzone di quando ero ragazzina.

   Erba di casa mia,
   mangiavo in fretta e poi correvo via
   quanta emozione, un calcio ad un pallone
   tu che dicevi piano "amore mio ti amo"

Sono andata a controllare: era l’inverno 1972. Quando l’inverno si chiamava Canzonissima. Era un tormentone anche quell’erba che vinse la Hit Parade sbaragliando addirittura il piccolo grande amore di Baglioni. La cantava Massimo Ranieri, appena tornato dal servizio militare.

Massimo Ranieri

Presa dalla smania dei controlli incrociati, venerdì sera ho fatto due conti davanti alla tv, mentre guardavo proprio lui, Massimo Ranieri, che abbracciava per la prima volta la figlia Cristiana, frutto di una lontanissima notte d’amore. Dunque: Cristiana oggi ha 36 anni. 2007 meno 36 uguale 1971. L’erba è del 1972. Risultato: nel 1972 Cristiana aveva meno di un anno.

Concepita nell’erba di casa mia? Ascolto Ranieri che racconta: “ero un cantante molto famoso, ma anche un ragazzo inesperto. Mi trascinarono via da quella storia, mi dissero che la paternità era un danno alla mia immagine. Immagine: una parola che mi ha sempre fatto schifo”. E il pubblico in studio giù con gli applausi.

Ora Ranieri guarda in macchina: “Ma finalmente oggi ho capito che questo è il posto giusto per abbracciare mia figlia”. Oggi? La televisione? Il posto giusto? Sì. “Voglio che lo vedano tutti”. Perché? Perché “questa è casa mia”. La telecamera inquadra mamma, due sorelle, un cognato, una nipote mentre Ranieri fa il suo patto con gli italiani: “Cristiana, aiutami ad essere un buon padre per te”. Grande abbraccio commosso e altri applausi fragorosi.

Ma se c’era la Carrà al posto di Ranieri, se c’era una “lei” invece di un “lui” ad abbracciare, la commozione generale sarebbe stata la stessa?, si chiede, mi chiede, Marilena su CondiVisioni. Forse no, forse non così. Il riconoscimento differito della paternità è un clichè collaudato, soprattutto se lo nutri di napoletanità corriva (“i figli so’ figli” diceva mamma Ranieri, “fa parlà ’o core”, diceva papà Ranieri). Mentre lo stereotipo televisivo della maternità è cangiante, sfumato nei mille modi di essere madre, comprese le adozioni della Carrà (vedi diario 11 aprile 2006) e quelle di Cogoleto (vedi diario 29 settembre 2006). Il cuore di mamma non perdona le matrigne. E senza maternage non abbiamo scampo, finiamo a sgozzare il bambino della vicina di casa solo perché non possiamo avere un bambino tutto nostro (quante l’hanno pensato?).

Nello stesso tempo, è singolare che l’universo maschile cominci a declinarsi sulla casa, regno dell’immaginario e del simbolico femminile. Massimo Ranieri lo dice ben tre volte: “Questa è casa mia”. E indica la soluzione abitativa al maschile: una casa come schermo e uno schermo come casa.  Non male per un cantante e attore di successo. Più complicato per un altro padre alla ricerca di casa sul maxischermo di Porta a Porta. Criticatissimo, il padre di Raffaella Castagna, dopo la strage di Erba: ma come fa quell’uomo a stare davanti alla telecamere dopo che gli hanno ammazzato moglie figlia e nipote invece di starsene a casa col suo dolore?

Già, come se ce l’avesse ancora una casa vera, senza moglie, figlia e nipote. La sua casa è diventata tele-visione: ridisegnata in planimetria sui quotidiani, ricostruita come una scatola e poi scoperchiata come quella di Cogne, la respira tra le poltroncine bianche di Vespa e sullo sgabello di Cucuzza. E tutti a invitarlo, con l’arte maschile del ricevere: prego, faccia come se fosse (erba di) casa sua.

10 gen 2007

Voglia di televisione

davanti alla tv

“C’è chi nasce con la voglia di fragola e chi di cioccolato. Io c’avevo quella della televisione”.

Nasceva il 3 gennaio 1954, Carlo Ferrucci. Le doglie, a sua madre Elena, vennero per l’emozione quando la Signorina Buonasera sullo schermo tv del Bar Marotta pronunciò la frase fatidica: “La Rai Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Invece iniziò il fuori programma, la corsa in ospedale per partorire. La frittata era fatta, la tv aveva segnato per sempre il destino del nascituro.

E allora, cinquant’anni dopo: Raccontami (RaiUno, 13 puntate, sceneggiatura di Stefano Rulli, regia di Riccardo Donna e Fulvia Aristarco). La storia di Carlo, nato il primo giorno della televisione italiana.

Certo, con tutto il male che della tv si dice oggi, è una bella responsabilità essere venuto alla luce il 3 gennaio 1954. Però, siamo sinceri. Si tratta di un’eredità condivisa dall’intera generazione nata nella seconda metà degli anni Cinquanta. Siamo tutti nella stessa barca, anzi nella stessa scatola. Quella scatola che è entrata in famiglia insieme a noi, fisicamente insieme, allorché una schiera di padri ha pensato di festeggiare la nascita del figlio correndo ad acquistare il primo televisore della loro vita.

Abbiamo fatto ingresso nella domesticità insieme, bebé e televisore. Chi era il più fragile? Quale da maneggiare con più cura? Il neonato intruppato in volant di pizzo o il televisore sovrastato da un bel centrino all’uncinetto?

Diciamo che si cresceva insieme come fratelli, noi e la tv, senza farci del male. Condividendo regole e orari ferrei, da rispettare senza discutere. Gli anni scivolavano tra il tenente Sheridan, Carosello e il festival di Sanremo. Modugno apriva le braccia come un uccello, invitandoci a “Volare”. E Carlo Ferrucci si gettava dal secondo piano ritrovandosi sul camion del materassaio, soffice di lana appena cardata.

Non era pericoloso buttarsi di sotto, a quei tempi. Almeno fino all’arrivo della tv a colori che, guarda caso, corrispose all’arrivo della nostra maggior età.

“Ecco, sei già in televisione!”. A scuotermi bruscamente dal sogno di Raccontami è una fiction di Canale 5, Nati ieri (prodotta dalla Lux Vide). Prima scena della prima puntata. Sala parto. Il chirurgo estrae il corpicino appena nato e lo solleva. Il primo respiro, il primo vagito. L’emozione del padre che guarda il figlio venire al mondo: sul display tremolante della videocamera. “Ecco, sei già in televisione!”.

Noi si nasceva con la “voglia” di televisione, ora si nasce con l’imprinting della televisione. La telecamera è il primo oggetto in movimento che il nascituro vede. La prima impressione, il primo stampo, il simbolo materno, come dicono gli etologi? Non facciamo previsioni. Lasciamogli scrivere la sua fiction, un giorno. Al massimo, un bel titolo forte: “La mia vita in mille pixel”.

Ma chissà cosa diavolo sarà il pixel, tra cinquant’anni.